San Tommaso d’Aquino: le ebdomadi,


Le "Ebdomadi", ovvero "quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona."

Quello tra virgolette è il titolo originario dell’opera di Boezio, il titolo usuale è tratto dalle prime righe dell’opera dove egli dichiara di aver preso l’argomento dalle proprie ebdomadi. Il tema è quello celeberrimo del diversum est esse et id quod est. E’ utile ricordare l’orizzonte della filosofia speculativa di Boezio: essa è divisa nelle classi degl’oggetti da studiare, ovvero gli intellettibili (esseri che esistono al di fuori della materia, Dio, gl’angeli); gli intelligibili (esseri concepibili dal pensiero ma caduti nei corpi, es. l’anima); ed i naturalia (la materia). Parlare del diversum est esse et id quod est è per Boezio – come osserva Etienne Gilson – parlare …del rapporto della sostanza con il principio del suo essere sostanziale, cioè di ciò che la fa essere come sostanza (Gilson, La filosofia nel Medioevo, p.178).
Tommaso nel diversum est esse et id quod est porrà il problema del rapporto dell’essenza con l’esistenza. Questo è fondamentale non solo sul piano strettamente metafisico, ma anche su quello teologico, in quanto pone il rapporto tra creatura e creatore, in quanto definisce – se a ciò si può usare questo termine – la creazione stessa. Ancora, il diversum est esse et id quod est è basilare per ciò che concerne l’etica in quanto tanto Boezio che Tommaso, attraverso Agostino, si rifanno alla concezione platonica per cui l’essere è bene ed il male propriamente è mancanza di essere. Significativamente, nei cinque capitoli che Tommaso commenta delle Ebdomadi, egli si occupa sostanzialmente di due tematiche:
il rapporto dell’essenza con l’esistenza (appunto diversum est esse et id quod est, al commento al secondo capitolo); 
la bontà delle cose: ea quae sunt bona sunt.
Per il Gilson il diversum est esse et id quod est in Boezio si riferisce anzitutto al rapporto, nella sostanza composta, tra il tutto e le parti, il quale rapporto è diverso che nella sostanza semplice. Infatti per quanto concerne la sostanza composta:
Ogni essere individuale è un gruppo di accidenti unico ed irriducibile ad ogni altro. Siffatto insieme di determinazioni collegate (dimensioni, qualità sensibili, figura etc.) è ciò stesso che è (id quod est), (Gilson, op. cit. p. 177).
Il quod est è perciò tutte le parti del composto prese nel loro insieme e nessuna singolarmente, ad es. l’uomo è anima e corpo, ma non è né un’anima, né un corpo. Determinato l’id quod est, resta da trovarne l’essere, cioè ciò che unifica le parti in un tutto, ciò che ne è perciò l’elemento costitutivo.
Ora, ogni composto - scrive Gilson – è fatto di elementi determinati da un elemento determinante. L’ultimo determinato è materia, l’ultimo determinante è forma. Ad es. l’uomo si compone di una materia organizzata in corpo e di un’anima che organizza questa materia in corpo. L’anima è ciò per cui l’uomo è ciò che è; essa è il quo est di questo id quod est, e poiché essa lo fa essere, è il suo essere (esse).
Da qui la conclusione fondamentale: per le sostanze composte l’essere (…) è dunque la forma per la quale questa sostanza è ciò che essa è (Gilson, op. cit.). Ossia: l’essere, ciò per cui il composto ha il suo id quod est, ovvero ha di essere ciò che è, è la forma. Questa forma, a sua volta, è però solo un quo est del composto, per cui Ciò che è proprio di questa sostanza composta è dunque che anche il suo essere non è, o, se si preferisce, il suo stesso essere non è ancora che un quo est. (Gilson, op. cit.) In Dio, sostanza semplice, invece, il suo essere e ciò che egli è fanno un tutt’uno. Tommaso fa rilevare anzitutto come Boezio riferisca il diversum est esse et id quod est anzitutto al piano concettuale:  Dice dunque in primo luogo che diverso è l’essere e ciò che è, e questa diversità non deve essere ricercata nelle cose, di cui qui ancora non si parla, ma alle stesse ragioni o intenzioni. (Tommaso, Expositio librii Boetii De Ebdomadibus, cap. II) La disamina inizia dunque dalla diversità tra l’esse e l’id quod est sul piano concettuale e su questo appare che l’esse significa l’astratto, mentre il quod est è il concreto: Altro è infatti ciò che significhiamo quando diciamo essere e altro è ciò che significhiamo quando diciamo ciò che è, così come altro è ciò che significhiamo quando diciamo correre e altro ciò che significhiamo quando diciamo colui che corre. Correre e essere vengono infatti significati in astratto, come bianchezza; ma ciò che è, cioè l’ente, e colui che corre vengono invece significati in concreto, come bianco (pag. 385.). Da questa prima differenza concreto (id quod est) / astratto (esse) se ne possono ricavare, sempre restando sul piano delle intenzioni e delle ragioni, cioè su quello concettuale, tre differenze fondamentali: 
Essendo astratto, l’esse non può essere soggetto di sé, mentre l’id quod est, il concreto, è il soggetto che possiede l’essere: La prima differenza è data dal fatto che l’essere stesso non viene significato come il soggetto dell’essere, così come neppure correre viene significato come il soggetto della corsa. Per questo come non possiamo dire che lo stesso correre corra, così non possiamo dire che lo stesso essere è; ciò che è, al contrario, viene significato come il soggetto dell’essere, così come ciò che corre viene significato come il soggetto del correre (pag. 385.). Ciò che è, è soggetto e sussiste in quanto riceve la forma dell’essere: …e pertanto come possiamo dire di ciò che corre, o del corrente, che corre, in quanto soggiace alla corsa e partecipa di essa, così possiamo dire che l’ente o ciò che è, è in quanto partecipa dell’atto di essere (pag. 385 - 387.).
Essendo del tutto ed assolutamente astratto, l’esse non può prendere parte di alcuna delle tre possibili forme di partecipazione:  a) quella con cui il particolare partecipa dell’universale; b) quella con cui il soggetto partecipa dell’accidente o la materia della forma; c) quella con cui l’effetto partecipa della causa. Tommaso, esclusa subito la terza causa spiega:  Lasciando da parte questo terzo modo di partecipazione, è impossibile che, secondo i primi due modi l’essere stesso partecipi di qualcosa. Infatti non può partecipare di qualcosa al modo in cui la materia partecipa della forma e il soggetto partecipa dell’accidente, perché, come si è detto, l’essere viene significato come qualcosa di astratto. E analogamente non può neppure partecipare di qualcosa al modo in cui il particolare partecipa dell’universale (…) perché l’essere stesso, che è massimamente comune, e per questo può essere partecipato da altro, ma non può partecipare di altro (pag. 387.). L’id quod est, invece, cioè l’ente, o meglio, giacché qui siamo sul piano concettuale, il concetto dell’ente (la sua essenza ndr.), è egualmente un assoluto astratto ma è l’astratto di un concreto: Anche ciò che è, ovvero l’ente, è altrettanto comune, ma viene tuttavia significato in concreto, e perciò partecipa dell’essere stesso (…) al modo in cui il concreto partecipa dell’astratto (pag. 389.). L’aquinate perciò conclude: ciò che è, cioè l’ente può partecipare di qualcosa; ma l’essere stesso non partecipa in alcun modo di qualcosa (op. cit.).
Si ricava dalla 2, ossia a differenza di quelli concreti i termini astratti non possono avere nulla di aggiunto a sé cioè di diverso, formalmente parlando, alla propria ragione essenziale. … ciò che si predica in astratto non racchiude in sé nulla di estraneo, cioè di esterno alla sua essenza, come nel caso della umanità, con cui s’intende ciò per cui qualcosa è uomo (…) Ma le cose stanno diversamente per ciò che si predica in concreto: per uomo s’intende infatti ciò che possiede l’umanità (…) Ma il fatto che l’uomo possieda l’umanità (…) non impedisce che essi abbiano qualcos’altro che non appartiene alla loro ragione essenziale (op. cit.). Ossia: il termine astratto non può contenere nulla di diverso dalla propria essenza, quello concreto sì:  poiché dunque, come si è detto, l’essere stesso viene predicato in astratto, e ciò che è viene predicato in concreto, ne segue che è vero (…) che ciò che è può possedere qualcosa oltre a ciò che esso stesso è, cioè oltre alla sua essenza, mentre l’essere stesso non possiede nulla di aggiunto al di fuori della sua essenza (pag. 389.).
Partendo dal terzo punto, ossia che il termine astratto non ammette nulla di aggiunto alla propria essenza, quello concreto sì, allora in quest’ultimo, cioè nel quod est deve esserci un’ulteriore differenza tra l’esse simpliciter che consegue dalla forma sostanziale (ossia l’essenza della cosa) e l’esse aliquid che consegue dalle forma accidentali. Si pone così un ordine: prima l’ente partecipa dell’essere secondo la sua forma sostanziale ricevendo il suo esse simpliciter, quando questo si è costituito, può partecipare di altro e conseguire il proprio esse aliquid. Chiarito questo, Tommaso passa, con una sola frase, dall’ordine concettuale a quello naturale: Si deve dunque considerare innanzi tutto che, come l’essere e ciò che è differiscono secondo l’intenzione, così differiscono realmente nei composti (pag. 393.). Qui, nell’ordine reale, c’è ora la prima applicazione di quanto detto prima, cioè che se l’essere non partecipa di nulla perché la  di conseguenza l’essere stesso non è composto (pag. 393.). Da ciò è ricavato l’inverso: dunque ogni cosa composta non è il suo essere. Nell’ordine reale (naturale) dunque abbiamo anzitutto delle cose composte enti, in cui esse e quod est sono distinti non solo secondo le intenzioni e ragioni, ma realmente, abbiamo poi delle sostanze semplici in cui è necessario che l’essere stesso e ciò che è siano un’unica e identica cosa in senso reale (op. cit.). Le realtà semplici però non sono semplici in assoluto: … nulla impedisce infatti che qualcosa sia semplice sotto un certo aspetto, in quanto cioè manca di una determinata forma di composizione, pur non essendo semplice in senso assoluto (pag. 393). Perciò anche le realtà semplici per poter essere determinabili debbono contenere un principio di determinazione formale e questo le differenzia dall’essere: poiché tuttavia ogni forma determina il proprio essere, nessuna di esse è l’essere stesso, ma qualcosa che possiede l’essere (ivi). Le realtà semplici quindi, pur non avendo la composizione delle realtà composte, hanno, al pari di queste, un principio di determinazione formale che le distingue dall’essere. Si è così giunti a quello che per P. Porro è il punto in cui Tommaso individua la causa fondamentale del suo universo metafisico, ossia la contrapposizione tra ciò che è soltanto essere – ed in quanto tale è in oggettivabile, inesprimibile ed indeterminabile – e ciò che è invece essere formalmente determinato. Si è all’ Ipsum Esse Subsistens: Veramente semplice potrà essere invece soltanto ciò che non partecipa dell’essere e che non inerisce ad altro, ma è sussistente. Tale realtà, però, non può essere che unica, poiché, se l’essere stesso non possiede nulla di commisto a sé oltre a ciò che è l’essere, come si è detto, non ha in sé un elemento di diversificazione che possa dare origine alla molteplicità; e poiché non ha nulla di aggiunto a sé non può neppure, di conseguenza, ricevere qualche accidente. Questa realtà semplice, unica e sublime è Dio stesso (pag. 395). 
Ea quae sunt bona sunt.
E’ la seconda questione che deriva dalla prima. Posto, come fatto da Tommaso e Boezio, tramite Agostino, il bene eguale all’essere, il primo punto inerente la problematica della bontà delle cose è quello messo in evidenza da Boezio nelle prime riga del terzo capitolo delle Ebdomadi: Ma bisogna esaminare in che modo siano buone, se per partecipazione o in modo sostanziale. Entrambe le tesi – in quello che è l’orizzonte della filosofia classica – pongono dei problemi. Tommaso parte dalla considerazione dell’impostazione di Boezio: Si suppone che essere qualcosa per essenza e essere qualcosa per partecipazione risultino tra loro opposti. Questa contrapposizione è vera in riferimento a uno dei modi precedentemente esposti in cui si può intendere la partecipazione, e cioè a quello per cui il soggetto si dice partecipare dell’accidente o la materia della forma. Infatti l’accidente è esterno alla sostanza del soggetto e la forma è esterna alla stessa sostanza della materia. Per quanto invece riguarda l’altro modo in cui può essere intesa la partecipazione, ovvero al modo in cui la specie partecipa del genere, essa è vera solo nell’interpretazione platonica secondo cui l’idea di animale, quella di bipede e di uomo sono diverse, non secondo ad es. quella di Aristotele per la quale invece l’essenza animale non è realmente fuori dalla differenza uomo. La partecipazione dunque deve qui essere intesa al modo in cui il soggetto partecipa dell’accidente o la materia della forma, ed infatti Tommaso precisa:  Boezio tuttavia intende qui la partecipazione al modo in cui il soggetto partecipa dell’accidente, e perciò contrappone ciò che si predica sostanzialmente a ciò che si predica per partecipazione.(pag. 403). Fissata la tipologia della partecipazione in causa, si giunge al problema della prima tesi: se le cose sono buone per partecipazione, bisogna ammettere che non lo sono in sé, ma questo è contraddire il principio non solo filosofico, ma anche delle scienze naturali, secondo cui il simile tende al simile, per il quale se non sono buone in sé non possono neppure tendere al bene e neppure parteciparvi; Pertanto se gli enti sono buoni per partecipazione, non possono essere buoni di per sé, cioè per la loro sostanza. Ma da ciò seguirebbe che le sostanze e gli enti non potrebbero tendere al bene …(pag. 403 – 405). La seconda tesi porta anch’essa dei problemi: se le cose fossero buone in sé, in esse l’essere ed il bene coinciderebbero come in Dio, primo bene, e tutte le cose, essendo in esse identico essere e bene avrebbero la stessa perfezione del primo bene e coinciderebbero perciò stesso con Dio, come conclude Tommaso:  Se l’essere di tutte le cose è buono, le cose che sono,  in quanto sono, sono buone, in maniera tale che per tutte le cose risultino identici l’essere e l’essere buono (…) se l’essere stesso di tutte le cose è buono (…) allora tutte le cose sono di fatto simili al primo bene (sarebbero cioè beni sostanziali ndr.) (…) e da ciò seguirebbe ulteriormente che tutte le cose sarebbero il primo bene (…) ciò che suona blasfemo anche soltanto da pronunciare.  Tommaso chiude aderendo, senza particolari obiezioni alla conclusione di Boezio, cioè che le cose create sono buone in quanto create da Dio che è buono, infatti Dio, primo bene, è buono secondo la sua propria ragione essenziale (…) mentre l’essere del bene secondo è buono (…) in virtù della relazione al primo bene che ne è la causa ed a cui si rapporta come al proprio principio primo ed al proprio fine ultimo.(pag. 417). Nel bene secondo - nelle cose create -  vi è una bontà duplice:  la prima per la loro relazione causale con il primo bene, cioè in quanto create da Dio, la seconda relativa alla loro perfezione nell’essere e nell’operare. Per Boezio stesso sarebbero qui possibili due obiezioni a quanto esposto: a) si è detto che tutte le cose sono buone in ciò che sono, perché il fatto di essere buone è dipeso dalla volontà del primo bene. Dunque, tutte le cose bianche sono bianche in ciò che sono perché è dipeso dalla volontà divina che fossero bianche? Il problema è perciò se anche tutte le altre proprietà, come ad es. appunto il bianco, derivino da Dio allo stesso modo della bontà. La risposta è che la bontà appartiene essenzialmente a Dio ma non la bianchezza. b) Ma se Tutte le cose sono buone in ciò che sono, perché colui che è buono ha voluto che fossero buone; tutte devono allora, per lo stesso motivo essere giuste, perché chi ha voluto che fossero è giusto. La risposta qui è che il bene rappresenta una certa natura o essenza, mentre la giustizia è rapportata ad un atto e che quindi in Dio dove l’essere e l’atto coincidono, il bene e la giustizia sono identici, ma non così nell’uomo dove l’essere e l’agire sono diversi, inoltre, la giustizia si rapporta al bene con una estensione minore come la specie al genere e quindi il bene può contenere la giustizia ma non viceversa. E con ciò termina l’esposizione di questo libro. Sia benedetto Dio attraverso tutte le cose. Amen.(pag. 425).
N.B. I corsivi – salvo ove è diversamente indicato – si riferiscono al testo di San Tommaso, quale riportato in Tommaso, Commenti a Boezio, Rusconi, 1997.
francesco latteri scholten

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