San Tommaso d’Aquino: il progressista più grande.


La figura che più immediatamente viene alla mente, per associazione, è l’altra, anch’essa gigantesca di San Paolo. P. Rossano nell’introduzione a Le lettere di San Paolo, lo descrive così: Per incontrare San Paolo bisogna aprirsi all’universalità. Egli appartiene a tre mondi e a tre culture: ebraica, greca e romana, e tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua individualità, e trova un punto di riferimento soltanto nella persona di Cristo, al quale si rapporta con tutto il suo essere. E’ quanto – mutatis mutandis  - si può ben affermare anche dell’aquinate. Nato a Roccasecca  nel 1225 da famiglia di feudatari imperiali, è cugino dell’imperatore tedesco, appartiene per nascita e famiglia alla cultura italiana e tedesca, più tardi – per adozione – anche a quella francese. E’ uno spirito pienamente europeo, formato alla tradizione classica e clericale nell’abazia di Montecassino, ma inadatto a rinchiudersi strettamente in essa, aspirante anche a dimensioni più ampie, anche laiche, prosegue la formazione all’Università di Napoli (1239) recentemente aperta da Federico II. Avviene così l’incontro anche con quanto della cultura laica e greca ormai l’Occidente aveva perduto: Aristotele e la sua Metafisica. Si trova infatti a Napoli, fatto giungere da Federico II in persona, Michele Scotto che aveva già tradotto a Toledo dall’arabo tra gl’altri il De Coelo, il De anima e la Metafisica dello stagirita. L’interesse laico di San Tommaso non è tuttavia occasione di abbandono della tradizione cristiana: è proprio a Napoli che si ha l’altro fondamentale incontro della sua vita, quello con i Domenicani da poco fondati. Gl’ordini mendicanti erano una novità di grande significato culturale nelle strutture ecclesiali come sottolineato da Chenu nella sua Introduction à l’étude de St. Thomas d’Aquin : mentre le abbazie benedettine erano legate all’economia feudale, i conventi dei nuovi Ordini ne sono svincolati; il loro  centro d’azione non è nelle campagne, ma nelle città, e della città il centro intellettuale è l’Università, fondazione tipica nella quale l’emancipazione intellettuale si inseriva nell’emancipazione sociale. San Domenico, al quale il senso acuto dei bisogni della cristianità faceva capire le aspirazioni del suo tempo, aveva subito mandato i suoi primi discepoli a frequentare le scuole. L’Università sarà il semenzaio in cui si recluteranno i frati. Così avvenne anche a Napoli, e fra coloro che furono attratti alla nuova forma di vita religiosa fu il giovane Tommaso. L’ingresso di Tommaso nei Domenicani è del 1244, ma non piacque ai suoi familiari diretti che, mentre il nostro si avviava con altri novizi ed il Maestro Generale dell’Ordine verso Nord, lo sequestrarono ad Acquapendente e lo ricondussero con la forza a Roccasecca.  Tommaso riuscì a tornare presso i Domenicani nel 1245 e si recò non è certo se a Parigi o a Colonia. E’ certo che fu discepolo di Sant’Alberto Magno a Colonia dal 1248 al 1252. Quello di Sant’Alberto fu un magistero assai proficuo per il suo discepolo, che trovò un maestro di personalità similmente multiculturale ed aperta all’universalità, uno spirito in confinabile in ambiti chiusi al pari del discepolo, uno spirito aperto anche alla laicità, alla filosofia, alla cultura anche diversa. Uno spirito aperto all’Islam ed ai suoi filosofi – Avicenna, Alfarabi, Avencebrol – ma anche a quella ebraica, con Maimonide. Aperto attraverso la cultura islamica anche proprio a quell’Aristotele la cui lettura da poco la Chiesa non vietava più, ma che restava sospetto, quell’Aristotele che Tommaso aveva incontrato già a Napoli. Sant’Alberto Magno era un personaggio contestato proprio per questo. Egli si difende: Alcuni ignoranti vogliono combattere in tutti i modi lo studio della filosofia, e specialmente dei Predicatori dove nessuno resiste loro. Sono come animali bruti che imprecano contro quello che non ignorano. Ed ancora: Dico questo per certi pigri che che cercano conforto alla loro pigrizia andando a caccia di errori negli scritti altrui. E poiché dormono nella loro pigrizia, per non sembrare i soli a dormire, cercano di attribuire macchie agli eletti. Tali furono coloro che uccisero Socrate, esiliarono Platone da Atene e, con le loro macchinazioni costrinsero anche Aristotele ad andarsene. I problemi che gli scritti aristotelici ponevano erano soprattutto di due generi: a) conciliare con il cristianesimo un pensiero dalla forte impronta laica; b) conciliarsi con una teologia che fino ad allora aveva avuto una fortissima connotazione platonica. Per entrambi i problemi costituirono un forte ausilio proprio gl’interpreti arabi ed ebraici di Aristotele. L’impostazione è vincente ed apre interi orizzonti e mondi nuovi all’intera cristianità. Sono orizzonti e mondi nuovi tanto nel rapporto con l’antichità classica, quanto con il confronto con il mondo e la realtà del proprio presente, quanto, ancora, nel rapporto con il futuro. Si può serenamente affermare anzi che, senza San Tommaso, oggi non saremmo in grado di guardare adeguatamente né al cristianesimo, né all’antichità classica (avremmo ad es. una antichità classica monca – tra gl’altri - di Aristotele).
La nuova concezione che San Tommaso elabora è rivoluzionaria soprattutto perché rimanda ad una concezione altra sia di Dio che della Teologia – Dio è adesso actus purus, è l’ ipsum esse subsistens, ma è nuovo anche il concetto dell’uomo e l’antropologia. E’ la razionalità a conferire all’uomo la sua dignità, ma non si tratta di un razionalismo estremistico, bensì temperato, l’uomo infatti ha coscienza di essere soggetto strutturalmente non autofondante. Ha coscienza di non essere e di non poter essere fondamento a sé stesso, ha coscienza del suo limite, così come delle sue potenzialità. E’ con la razionalità che l’uomo attraverso le cinque vie potrà giungere a Dio, meglio a sapere che Dio esiste. Non c’è più l’idea innata di Dio, come voleva Sant’Agostino – rifacendosi a Platone – e con lui tutta la teologia precedente. Il fatto stesso che bisognerà attendere Locke e la sua concezione del no innate ideas, può fornire una prova della modernità, della rivoluzionarietà e della straordinarietà del pensiero dell’aquinate. Che questa concezione immane sia elaborata da un cugino dell’imperatore che ha scelto di farsi frate in uno dei nuovi ordini mendicanti ci dà la misura dell’esplosività di questa miscela. Tommaso ed i fratres, ma anche San Bonaventura con la sua posizione mediana tra Tommaso e quella più classica di Sant’Agostino, furono subito osteggiati dal clero secolare, vicino alle posizioni della nobiltà feudale. Nel 1252 il Maestro Generale dell’Ordine chiede ad Alberto un giovane baccelliere da avviare alla  carriera accademica all’Università di Parigi: questi invia Tommaso. L’aquinate è baccelliere biblico fino al  1254 e poi baccelliere delle sentenze (di Pietro Lombardo) fino al 1256. Sono gl’anni delle prime opere: il De ente e Le sentenze. Sono anni difficili. Guglielmo di Saint Amour accusa violentemente nella sua De periculis novissimorum temporum, appellandosi al Papa. San Tommaso risponde con la Contra impugnantes Dei cultum et religionem. Il Papa - Alessandro IV – provvede il 4 aprile 1255 con la Bolla Quasi lignum vitae, a favore dell’insegnamento dei frati. Nonostante molte successive condanne Guglielmo di Saint Amour rifiuta di accogliere i frati nel collegio dei docenti. Fu necessario l’ordine diretto del Papa all’Università perché i frati – segnatamente San Tommaso e San Bonaventura – fossero ammessi al collegio dei docenti. Il magistero di Tommaso a Parigi dura fino al 1259 ed è assai fecondo. Sono di questi anni il Commento al De Trinitate di Boezio, il De Veritate, le Quodlibetales, e, secondo alcuni, anche la Somma filosofica, ovvero la Summa contra Gentiles. Da queste opere traspare il modo tipico dell’insegnamento di San Tommaso: la Questio, ovvero la disputa. E’ anch’esso un metodo straordinario e si può affermare tranquillamente che in nessuna Università contemporanea si insegni con un metodo più moderno, di quanto sia stato quello di Tommaso. Vi erano due forme di disputa: a) Le quodlibetali, tenute due volte l'anno, in avvento e quaresima, cui partecipavano anche persone estranee all'università, ognuna delle quali poteva porre liberamente problemi su qualsiasi tema. b) Quelle ordinarie, cui partecipavano solo gli studenti, i baccellieri ed i magistri, e che erano tenute regolarmente durante l'anno.
La disputa avveniva tra opponentes e respondentes (generalmente un baccelliere), mentre il "Magister" dava la determinatio, cioè la risposta definitiva. A questo secondo genere appartengono molte delle opere dell’aquinate tra cui le Summe, ed il De Veritate. 
L'opera comprende 29 Quaestio suddivise in complessivamente 253 articoli, di cui solo la prima tratta della Verità, le restanti prime venti hanno un riferimento alla conoscenza divina ed umana, le questioni XXI - XXIX hanno a tema la volontà ed il bene.
Il primo articolo della prima Quaestio contiene in sintesi tutta la Metafisica di San Tommaso, lo alleghiamo per il diletto degl’appassionati di filosofia, avvertendo insieme i lettori comuni che gli scritti dell’aquinate si distinguono per la sua estrema capacità di sintesi e che per una esplicazione relativamente esemplificata è necessario rimandare a testi di Metafisica, in particolare si può suggerire Metafisica di Aniceto Molinaro.

 Il testo dell'articolo 1 della prima “Questio” del De Veritate.
Come nelle proposizioni  dimostrabili bisogna operare la riduzione a qualche principio per sé noto all'intelletto, così [ bisogna fare ] quando si ricerca che cos'è una certa cosa, altrimenti in entrambi i casi si andrebbe all'infinito, e così verrebbero meno del tutto la scienza e la conoscenza delle cose; ma ciò che anzitutto l'intelletto concepisce come la cosa più nota di tutte e in cui risolve tutti i concetti è l'ente (ens), come dice Avicnna al principio della sua Metafisica; per cui è necessario che tutti gl'altri concetti dell'intelletto siano ottenuti per aggiunta all'ente. Ora, all'ente non si può aggiungere qualcosa come estraneo, al modo in cui la differenza si aggiunge al genere o l'accidente al soggetto, perché ogni natura è essenzialmente ente, per cui anche il Filosofo dimostra che l'ente non può essere un genere; ma si dice che alcune cose aggiungono [ qualcosa ] all'ente in quanto esprimono un modo dello stesso ente che non è espresso dal nome di ente, il che accade in una duplice maniera. Innanzitutto quando il modo espresso è un qualche modo speciale dell'ente [E' il piano ontico, ossia della determinazione categoriale dell'ente, categorie supreme sono: sostanza (per sé), accidente (per altro), analogia, potenza e atto. ndr.]; vi sono infatti diversi gradi di entità secondo i quali si prendono i diversi modi di essere, e secondo questi modi si prendono i diversi generi delle cose: la sostanza infatti non aggiunge all'ente qualche differenza che designi qualche natura sopraggiunta all'ente, ma col nome di sostanza si esprime un certo speciale modo di essere, cioè l'ente per sé, e così per gli altri generi. 
La seconda maniera si ha quando il modo espresso è un modo generale che consegue a ogni ente [E' il piano ontologico, sul quale incontriamo i trascendentali  (res, unum, aliquid, bonum, verum): l'identificazione / distinzione di questi con l'essere costituisce il cosiddetto piano trascendentale proprio, quella con l'ente, il piano trascendentale derivato: l'ente è uno, vero, buono, nella misura in cui partecipa all'essere. Le vie del piano ontologico sono due: 1) ciò che consegue all'ente considerato in sé: espressione affermativa dell'ente = Res; espressione negativa dell'ente = unum; 2) ciò che consegue all'ente considerato in relazione ad altro: come divergente = Aliquid; come convergente: nell'anima: a) secondo l'intelletto = verum; b) secondo la volontà = bonum. ndr.], e questo modo può essere duplice: o in quanto segue ogni ente in sé, o in quanto segue un ente in ordine a un altro ente. Nel primo caso qualcosa viene espresso nell'ente o affermativamente o negativamente; ma non si trova qualcosa che sia detto affermativamente in modo assoluto a riguardo di ogni ente all'infuori della sua essenza, secondo la quale si dice che esso è, e così viene imposto il nome di "cosa" (res), il quale differisce da "ente", secondo Avicenna, per il fatto che "ente" viene preso dall'atto di essere mentre "cosa" esprime la quiddità o l'essenza dell'ente; la negazione poi che consegue a ogni ente in modo assoluto è l'indivisione, la quale viene espressa dal nome "uno" (unum): infatti l'uno non è altro che l'ente indiviso. Se invece il modo dell'ente è preso per ordine ad altro, allora o si ha la divisione di una cosa dall'altra e ciò è espresso dal nome "qualcosa" (aliquid): si dice infatti aliquid nel senso di aliud quid, cioè di "un altro qualcosa", per cui come l'ente si dice "uno" in quanto è indiviso in sé, così si dice "qualcosa" in quanto è diviso dagli altri; oppure si ha la convenienza di un ente con un altro, e ciò non può aversi se non si prende qualcosa che per natura sua conviene con ogni ente: e ciò è l'anima la quale "in certo qual modo è tutte le cose", come è detto nel De anima; ma nell'anima vi è la potenza conoscitiva e quella appetitiva: e così la convenienza dell'ente con l'appetito è espressa dalla parola "buono" (bonum), per cui al principio dell'Etica è detto che "il bene è ciò che tutte le cose appetiscono", mentre la convenienza dell'ente con l'intelletto viene espressa dal nome "vero" (verum).
Ma ogni conoscenza si compie attraverso l'assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta, così che l'assimilazione è detta causa della conoscenza, come la vista, per il fatto di essere disposta secondo la specie del colore, conosce il colore: la prima comparazione dell'ente all'intelletto è dunque che l'ente concordi con l'intelletto, la quale concordanza è detta "adeguazione della cosa e dell'intelletto", e in ciò formalmente si compie la definizione di "vero". Questo è dunque ciò che il vero aggiunge sopra l'ente: la conformità, cioè l'adeguazione, della cosa e dell'intelletto, alla quale conformità, come si è detto, segue la conoscenza della cosa: così dunque l'entità della cosa precede la nozione della verità, ma la conoscenza è un certo effetto della verità. In base a ciò si trovano tre definizioni del vero o della verità. La prima riguarda ciò che precede la nozione di verità e in cui il vero si fonda, e così Agostino dice che "il vero è ciò che è", e Avicenna che "la verità di qualsiasi cosa è la proprietà del suo essere che le è stato assegnato", e alcuni che "il vero è l'indivisione dell'essere e di ciò che è". Il secondo tipo di definizione è dato in base a ciò in cui formalmente si compie la definizione di vero, e così Ysaac [Israeli] dice che"la verità è l'adeguazione della cosa e dell'intelletto", e Anselmo che  "la verità è la rettitudine percettibile della sola mente" - infatti questa rettitudine si dice secondo una certa quale adeguazione -; e il Filosofo dice che definiamo il vero quando diciamo che è ciò che è o che non è ciò che non è. Il terzo tipo di definizione è dato in base all'effetto conseguente, e così Ilario dice che "il vero è dichiarativo e manifestativo dell'essere", e Agostino che "la verità è ciò mediante cui si mostra ciò che è" e ancora che "la verità è ciò in base a cui giudichiamo degli inferiori".
Francesco latteri scholten.

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