E' quello dell'essere determinato
perciò delle proprietà categoriali dell'ente,
esse sono: l'analogia,
l'atto e la potenza, la sostanza e l'accidente.
E' il piano che S.Tommaso tratta per
primo:
Innanzitutto quando il modo espresso è un qualche modo
speciale dell'ente[1];
e che peraltro esaurisce in poche
battute:
... vi sono infatti diversi gradi di entità secondo i quali
si prendono i diversi modi di essere, e secondo questi modi si prendono i diversi
generi delle cose: la sostanza infatti non aggiunge all'ente qualche differenza
che designi qualche natura sopraggiunta all'ente, ma col nome di sostanza si
esprime un certo speciale modo di essere, cioè l'ente per sé, e così per gli
altri generi.
E' utile ampliare brevemente, per
raccordare con quanto già detto, ma anche con il seguito.
Sul piano ontologico - come si è visto
- l'essere si è manifestato come Unum, Verum e Bonum, ossia come unità e
identità, come verità e necessità e come bontà e permanenza.
Ora, in contrasto con l'unità, la
realtà esperienziale ci mostra la molteplicità e diversità, ed in contrasto con
la verità e bontà ci mostra il divenire.
L'innegabilità dell'esperienza e del diverso e del
diveniente riguarda l'ente, ma non considerato nel suo essere ma nella sua determinazione, nella sua modalità e
nella sua essenza: l'ente determinato non si oppone solo al nulla, ma si oppone a ogni altro ente: è questo e non quello; in
quanto determinato esclude da sè ogni altra determinazione; e in forza di
questa opposizione ed esclusione si diversifica e si moltiplica o diviene
diverso e molteplice. Si scorge facilmente che il diverso e il diveniente
inroducono nell'essere la divisione,
la negazione, l'esclusione, l'opposizione; l'ente, in quanto determinato, non è l'essere come
tale, si divide dall'essere come tale, vi si oppone e lo esclude. Infatti la
determinazione è negazione (omnis
determinatio est negatio); in quanto non è l'essere, non è l'unità, non
è la verità, non è la bontà. Inoltre, in quanto determinato si oppone a ogni altro ente
determinato, cioè nella sua determinazione si oppone a ogni altra
determinazione: un ente si oppone a un altro ente, è l'opposto dell'altro ente.
La sintesi, in cui si presenta l'ente nell'esperienza, è, quindi, una sintesi
aporetica, problematica, ossia una sintesi fra elementi contrastanti, opposti,
inconciliabili. In quanto essere,
l'ente determinato è interamente simile, comune e uno con tutti gl'altri enti
in quanto essere: non si oppone se non al non essere. In quanto determinazione, l'ente è interamente
dissimile, opposto, diverso. In quanto essere,
l'ente è uno in sè e con tutti gl'altri enti; in quanto determinato, l'ente è diverso da tutti gl'altri enti (ed è
diverso dall'essere stesso). L'aporeticità e la problematicità si esasperano,
se si rileva che l'ente in quanto essere e l'ente in quanto tale, cioè in
quanto determinato, designano tutti e due la totalità e l'integralità
dell'ente: l'ente è tutto
essere ed è tutto tale
determinato ente.[2]
Il problema della sintesi di essere e
determinazione che è l'ente è dunque il problema della relazione dell'essere -
che è uno, vero, buono - con la determinazione, caratterizzata dalla
diversità/molteplicità e dal divenire:
Sicchè si deve ritenere che la rigorosa formulazione del
problema è questa: l'essere e l'ente o gli enti. La prima e originaria
differenza, infatti, consiste nel rapporto tra l'essere trascendentale e
l'ente; a sua volta l'ente, essendo costituito al suo interno dalla
determinazione, implica la differenza tra ente ed ente, tra un ente e ogni
altro ente, quella differenza per cui ogni ente non è alcun altro ente. La
reciprocità di questa differenza è alla base della molteplicità degli enti. Si
tratta, dunque, di indagare la differenza tra essere ( = identità ) ed ente e
tra ente ed ente.[3]
Si è tentato di risolvere il problema
in due modi, il monismo assoluto
ed il pluralismo assoluto.
L'affermazione fondamentale del monismo
assoluto è quella della identità assoluta dell'essere, ma questo è di fatto
dire che l'essere esclude da sè ogni determinazione: tutto è essere, c'è solo
essere, l'essere non ammette altro da sè.
Esso costituisce la struttura teoretica
di tutte le forme di panteismo.
E' la posizione attribuita storicamente
a Parmenide.
Qui la diversità ed il divenire sono
impossibili perchè la diversità implica una differenza dell'essere da se stesso
ed in se stesso e il divenire suppone un mutamento dell'essere, ossia il non
essere dell'essere.
E' questo l'esito doppiamente negativo
attribuito a Parmenide che ne avrebbe derivato - sempre secondo quanto
attribuitogli - l'apparenza del mondo reale caratterizzato appunto dal divenire
e dalla diversità/molteplicità.
Bisogna qui tuttavia osservare che
Parmenide non afferma che l'essere è uno o unico, bensì che
l'essere è l'intero. Il che non significa affermare che c'è un solo essere, ma
che l'essere, opponendosi al non essere, è interamente essere e che questa
integralità dell'essere costituisce la verità innegabile del tutto, al di fuori
del quale rimane solo il non essere. Con ciò si vuol dire che è problematico,
sul piano storico, attribuire a Parmenide la negazione della differenza: tale negazione costituirebbe la violazione
più stridente del principio di non contraddizione che è la sua straordinaria
scoperta (...). Quello che è certo è che Parmenide ha posto l'inderogabile
esigenza che la differenza, se appare, appare come interna all'essere e
dominata dall'impossibilità di non essere.[4]
La posizione che è storicamente
attrribuita a Parmenide è contraddetta dalla realtà nella quale la differenza è
un dato innegabile, cioè anche la differenza è essere, e in quanto tale si
manifesta, a differernza, ad es. del nulla il quale in quanto tale non si
manifesta.
Il pluralismo assoluto invece ha come affermazione
fondamentale quella dell'assoluta differenza e molteplicità dell'essere.
Per esso il significato di essere e di
ente è puramente negativo e riduttivo: è quello di non essere nulla.
La prima manifestazione dell'essere,
che è quella che si manifesta nel giudizio (questo è), è un puro nesso
linguistico, esso non dice niente dell'essere, è nominalismo, essere ed ente
sono solo nomi.
La conseguenza è l'equivocità tra il
nome e la realtà.
Di fatto qui l'unità e l'identità sono
individuate nella determinazione (essenza) e l'essere non ha più alcuna
positività, esso rappresenta solo lo stato di esistenza, il fatto di esistere,
della determinazione.
... dell'essere dunque non ne è nulla, perchè non è assoluta
opposizione al non essere. Ma, di conseguenza, non ne è nulla neppure
dell'essenza, giacchè la positività, cioè l'unità e l'identità, dell'essenza o
determinazione, consiste come modalità, misura e partecipazione dell'essere:
tolto l'essere è tolta anche l'essenza o determinazione o partecipazione.[5]
Conseguenza è che l'essere si frantuma
e si disperde nelle determinazioni.
Il pluralismo assoluto rappresenta la
struttura teoretica fondamentale del positivismo, dell'empirismo, del sensismo,
del fenomenismo, del nominalismo e di tutte le filosofie della differenza.
In definitiva dunque: il monismo
assoluto riconduce tutto all'essere, di fatto togliendo la determinazione e,
viceversa, il pluralismo invece alla determinazione togliendo l'essere.
Nessuno dei due riesce a dare una
esplicazione esaustiva e soddisfacente della realtà.
Si è poi trovata la soluzione nella analogia dell'ente.
L'analogia concepisce l'ente come
sintesi di essere e determinazione e perciò riconosce:
a) che l'ente in quanto essere è uno,
comune e convergente con tutti gl'altri enti, come giustamente voleva la
concezione monistica, ma qui, a differenza che in quella, l'essere dell'ente è
considerato nella sintesi di essere e determinazione e non astrattamente e
separatamente senza riferimento alla determinazione.
b) che l'ente in quanto determinazione
è diverso, molteplice ed opposto a tutti gl'altri enti, come giustamente voleva
il pluralismo, ma qui, di nuovo diversamente che lì, la determinazione
dell'ente è considerata nella sua sintesi con l'essere e non astrattamente e
separatamente perciò senza riferimento all'essere.
Sintesi di essere e determinazione,
l'ente determinato è l'ente che non solo, come l'essere, si oppone al nulla, in
quanto è, ma si oppone, in quanto sè stesso, ad ogni altro ente determinato, e,
di più, si oppone all'essere perchè è, ma non è l'essere, è finito, perciò
diverso e diveniente.
Il problema è perciò quello interno
all'essere determinato, tra l'essere e le sue determinazioni, cioè quello - nella sintesi - di una
mediazione tra i due termini essere e determinazione, questa mediazione è
l'analogia:
... l'analogia conncepisce l'ente come sintesi di essere e
di determinazione e pesna questa sintesi come tale, che varia con il variare
della determinazione, ma che permane nell'unità in quanto, in questa sintesi, è
l'essere che si determina e la sua determinazione non è ne è concepibile se non
in rapporto all'essere.[6]
Questa sintesi è il momento essenziale della posizione
dell'analogia dell'ente, nel senso che l'ente è costituito in sè stesso da
questo duplice essenziale riferimento: dell'essere alla determinazione e della
determinazione all'essere.[7]
ossia:
convergenza
<---------------------
Essere <
analogia < determinazione
--------------------->
divergenza
L'analogia consente dunque, da un
parte, il diversificarsi dello stesso essere nelle diverse determinazioni,
dall'altra, il convergere delle diverse determinazioni nell'identità
dell'essere.
Essa cioè riesce a dare conto della
unimolteplicità del reale.
L'analogia è di proporzionalità o
somiglianza di rapporti, e analogia di attribuzione.
A ben vedere però, anche l'analogia di
proporzionalità si risolve in ultima analisi in quella di attribuzione così che
si può parlare sostanzialmente della analogia come analogia di attribuzione.
L'analogia di attribuzione, nella quale
sostanzialmente si risolve l'analogia entis, concerne la diversa attribuzione
di significati ad uno stesso termine, essa è dunque una questione linguistica.
L'esempio più noto è quello riportato
nella Metafisica di Aristotele:
L'essere si dice in molteplici significati, ma sempre in
riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L'essere, quindi, non si
dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo "sano"
tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la
produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; (...)
Così dunque anche l'essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad
un unico principio ...[8]
Dunque in quanto sintesi di essere e
determinazione, l'ente presenta insieme convergenza e divergenza, unità e
molteplicità.
Lo "strumento" liguistico di
questa convergenza / divergenza è l'analogia di attribuzione, grazie ad essa
l'ente, che è ente solo in quanto essere, dall'essere e nell'essere, si
manifesta uno in quanto essere, e diverso e molteplice in quanto
determinazione.
E' importante notare che qui tanto
l'essere quanto la dterminazione non sono due elementi o due parti dell'ente,
ma ne sono i suoi "principi" costitutivi.
In quanto principi costititivi essi
sono persè relazionali ossia autoimplicantisi: l'essere rinvia alla
determinazione e viceversa, e perciò essi sono trascendentali.
L'analogia ci consente dunque di dare
conto della unimolteplicità del reale e di quella prima forma della diversità,
quella che si manifesta appunto nella unimolteplicità del reale stesso.
Esiste però anche un altro modo della
diversità, quello che si manifesta nel "divenire".
Abbiamo tre tipi di divenire:
1) Quello che Aristotele chiama
generazione (e corruzione) e ne distingue tre forme: quella naturale, quella
operata dall'arte e quella dovuta al caso (o spontanea).
Sono naturali le generazioni nelle
quali, sia ciò da cui le cose derivano, sia l'agente, sia il risultato del
processo sono esseri naturali.
2) Il cambiamento della determinazione
dell'ente che può essere:
a) accidentale: un ferro diviene
rovente, un liquido da freddo diventa caldo;
b) sostanziale: un pezzo di legno
brucia e diventa cenere.
3) Il comparire e lo scomparire
dell'ente nell'orizzonte della presenza o dell'esperienza: un aereo compare
all'orizzonte per poi sparire all'orizzonte.
Il divenire porta una nuova aporia da
superare: il divenire è realtà manifesta, ma l'ente, sintesi di essere e
determinazione, non può divenire nè in quanto essere (perchè questo è necessità
e permanenza), nè in quanto determinazione (perchè in quanto già determinato
non può essere determinabile: omnis determinatio est negatio).
Aniceto Molinaro osserva:
... il divenire (...) si mostra come divenire dell'ente
concreto.
Il divenire, quindi, accade in quanto l'ente concreto mostra
in sè la presenza di un principio o elemento di determinabilità correlativo a
un principio o elemento di determinatezza, vale a dire: in quanto mostra in sè
la presenza di due principi o elementi costitutivi e correlativi. Aristotele li
ha chiamati potenza e atto: il principio di determinabilità è la potenza; il
principio di determinatezza è l'atto. Questi due principi formano la
costituzione dinamica dell'ente che diviene. Il divenire è il passaggio - la
determinazione come atto del determinarsi - dalla potenza all'atto ed è l'atto
dell'ente in potenza, cioè: la determinabilità che si determina come o nella
determinatezza.[9]
Qui, in questa impostazione, è il
merito grandissimo di Aristotele, giacchè essa consente, sia per l'essere che
per la determinazione di cui è sintesi l'ente, di risolvere l'aporia, di
toglierla, perchè in realtà non c'è passaggio dall'essere al non essere o
viceversa, ma si resta nell'alveo dell'essere, come osserva Giovanni Reale:
La dottrina della potenza e dell'atto è, dal punto di vista
della metafisica, di grandissima importanza. Con essa Aristotele ha potuto
risolvere le aporie eleatiche del divenire e del movimento: divenire e
movimento scorrono nell'alveo dell'essere, perchè non segnano un passaggio dal
non essere assoluto all'essere, bensì dall'essere in potenza all'essere in
atto, cioè da essere a essere.[10]
Ora, ciò che passa dall'essere in
potenza all'essere in atto è l'ente concreto, ossia il sostrato.
Sostrato è per Aristotele,
precipuamente, la sostanza ( :
La sostanza viene
intesa, se non in più, almeno in quattro significati principali: infatti
si ritiene che sostanza di ciascuna cosa sia l'essenza, l'universale, il genere
e, in quarto luogo, il sostrato. Il sostrato è ciò di cui vengono predicate
tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di alcun'altra. Perciò, in
primo luogo, di esso dobbiamo trattare: infatti, sembra che sia sostanza
soprattutto il sostrato. E sostrato viene detta in un certo senso la materia,
in un altro senso la forma, e, in un terzo senso, ciò che risulta dall'insieme
di materia e di forma (il sinolo).[11]
Sostanza è - al tempo stesso - per
Aristotele, la prima delle categorie, quella che è da ritenersi categoria in
senso primario e della quale tutte le altre non sono se non affezioni e
determinazioni, tanto che per lo stagirita il problema dell'essere si
identifica con quello della sostanza:
Questa domanda per il nostro ne implica
altre due, cioè due direzioni d'indagine:
a) La domanda o problema teologico,
ossia se vi siano solo sostanze sensibili o anche soprasensensibili e se vi
siano delle sostanze separate, ossia separate dalle sensibili.
b) Che cosa propriamente è la sostanza e per
rispondere a questo bisogna stabilire quali siano i caratteri distintivi della
sostanza (o le note definitorie del concetto di sostanza) e stabilire quali
cose posseggano quei caratteri e quelle note.
I caratteri e le note definitorie del
concetto di sostanza sono cinque:
1) Sostanza è ciò che non inerisce ad
altro e che perciò non si predica di altro e che perciò è sostrato di inerenza
e di predicazione di ogni altro modo di essere.
2) Sostanza è un ente che è capace di
sussistere autonomamente in sè e per sè.
3) Sostanza è il ossia ciò che è un alcunchè di determinato, perciò non può
essere sostanza nè un attributo universale nè un ente di ragione.
4) Sostanza è ciò che è caratterizzato
dalla unità intrinseca, non è perciò sostanza un aggregato di parti.
5) Sostanza è ciò che è connotato dalla
ossia ciò che è atto o attualità, non è sostanza ciò che è
mera potenzialità o potenza non attuata.
C'è ora una base su cui rispondere alla
domanda che cos'è la sostanza?
Anzitutto possiamo dire che
gl'universali che per Aristotele equivalgono alle idee dei platonici, non
possiedono nessuno dei citati caratteri e pertanto non sono sostanze.
La materia possiede solo il primo dei
caratteri sopra citati e perciò può essere intesa come sostanza nel modo più
debole.
Il sinolo, dal punto di vista empirico,
sembra essere la sostanza per eccellenza, ma non lo è dal punto di vista
metafisico.
Dal punto di vista metafisico è
sostanza per eccellenza la forma perchè essa è fondamento, cioè causa e ragion
d'essere, mentre da questo punto di vista il sinolo è solo principiato,
causato.
Sostanza è perciò nel senso più forte
la forma o essenza o causa formale, la causa prima dell'essere ciò che
determina in un determinato modo l'essere determinato.
Ora,
La forma o essenza è condizione della generazione e del
divenire, ma essa stessa è ingenerabile e indivenibile: anzi si potrebbe dire:
è condizione del generarsi e del divenire delle cose appunto in quanto è
ingenerabile e indivenibile. Infatti nessuno produce la forma, così come
nessuno produce la materia, ciò che si genera e si produce è, invece il sinolo
di forma e materia, e si genera e si produce appunto attraverso l'unione di
forma e materia. Se si generasse anche la forma, a sua volta essa dovrebbe
generarsi da una ulteriore unione di materia e forma e lo stesso dovrebbe
avvenire daccapo anche per questa ulteriore forma e così all'infinito.[13]
Perciò la sostanza intesa nel senso di
forma è "il principio di tutti i processi di generazione"(Aristotele,
Metafisica, Z 9, 1034 30)
La grandezza della concezione dello
stagirita è dunque di superare l'aporia eleatica per la quale il divenire era
passaggio dall' essere assoluto al non essere assoluto o viceversa, mostrando
che essa è invece il passaggio dalla potenza all'atto, ossia di muoversi
nell'ambito dell'essere, essa inoltre risolve al tempo stesso il problema
dell'unità della materia e della forma, essendo la prima potenza e la seconda
atto.
Si può spiegare ora anche il movimento.
Il movimento è appunto passaggio dalla
potenza all'atto, ma, atto e potenza investono e riguardano non solo la prima,
bensì tutte le categorie, e così il movimento riguarderà tutte le categorie ed
avremo tanti tipi di movimento quante sono le categorie, ne cito alcuni:
secondo la sostanza avremo la
generazione e corruzione, già disaminate;
secondo la qualità avremo
l'alterazione;
secondo la quantità l'incremento e la
diminuzione;
secondo il luogo la traslazione.
Per chiudere questo breve
"excursus" del piano ontico rimane ancora da disaminare l' accidente.
L' accidente è ciò che solo
accidentalmente inerisce ad un soggetto, ad esempio l'essere musico, o l'essere
bianco, all'uomo, non si tratta cioè di un quid proprio dell'uomo.
Aristotele ne distingue due:
Accidenti significa ciò che appartiene ad una
cosa e che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre nè per lo
più: per esempio se uno scava una fossa per piantare un albero e trova un
tesoro. Questo ritrovamento del tesoro è dunque un accidenti per chi scava una
fossa: infatti una cosa non deriva dall'altra nè fa seguito all'altra
necessariamente; e nemmeno per lo più chi pianta un albero trova un tesoro. E un musico può
anche essere bianco, ma, poichè questo non avviene sempre nè per lo più, noi
diciamo che è un accidente. (...)[14]
[1] E' il piano ontico, ossia della
determinazione categoriale dell'ente, categorie supreme sono: sostanza (per
sé), accidente (per altro), analogia, potenza e atto.
[2] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 134 - 135
[3] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 139
[4] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 141
[5] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 142
[6] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 143
[7] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 144
[8] Aristotele
Metafisica, G, 1003 - 32 / 1003 b - 6
[9] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 158
[10] Reale
Giovanni, Introduzione a Aristotele, pag. 63
[11] Aristotele,
Metafisica, Z 1028 b 32, 1029 3
[12] Aristotele,
Metafisica, Z 1028 b 3 - 4
[13] Reale
Giovanni, in Aristotele, Metafisica,
sommari analitici, lib. 7, pag.761
[14] Aristotele,
Metafisica, D 20/30 1025
a 14 - 21
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