De Veritate: il piano dell' Essere (o ontologico, o trascendentale).


 E' il piano proprio dell' "Essere", ove esso si manifesta quale Uno, Vero e Buono.
E' qui opportuno anzitutto confrontarsi con il "significato" dell' "Essere" e con la sua evoluzione.
Si è ritenuto confacente a ciò seguirne l'evoluzione storica iniziando dal significato assunto nei presocratici  e procedendo con un'analisi moderna che però si mantiene nell'orizzonte presocratico quale quella di Heidegger, a volte Jaspers, e di Galimberti, la quale - sebbene sia tarata dal limite di restare in quell'orizzonte e perciò non cogliere appieno anche le grandezze e le bellezze a cui apre la successiva concezione dell'essere - ha il pregio di illustrare bene tanto l'orizzonte della significazione presocratica dell' "essere", quanto di cogliere molto bene i punti e le modalità in cui quell'orizzonte viene superato dalla configurazione del nuovo orizzonte che la nuova significazione dell' "essere" apre.
Secondo Jaspers, se prescindiamo dalle successive categorie interpretative e torniamo a quelle originarie, la prima concezione dell' "essere" può essere individuata nell' "Apeiron" di Anassimandro:
Principio di tutte le cose è l' àpeiron che comprende in sé tutte le cose ed a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.[1]

L' àpeiron, indeterminabile, illimitato ed infinito senza inizio e senza fine è l'orizzonte entro cui si manifestano gli enti, l'orizzonte nel quale essi si presentano e l'orizzonte nel quale è da cogliere il senso del principio e del governo degli enti.
La concezione di questa strutturazione sarà mantenuta tanto in Eraclito quanto in Parmenide.
Si tratta perciò di stabilire cosa sia, in cosa consista l'indeterminabilità di questo indeterminato che comprende in sé, che è l'orizzonte in cui si presentano, si manifestano tutti i determinati e tutte le determinazioni e le dterminabilità e quale sia la sua legge.
Ecco allora il lògos di Eraclito come bene lo spiega Jaspers:
Il lògos è l'indeterminato infinitamente determinabile, è l'unità degli opposti e la totalità onnicomprensiva come tutte le grandi parole fondamentali della filosofia.[2]

L'unità degli opposti è qui quella opposizione che permette a ciascuna cosa, opponendosi alle altre, di giungere alla propria identità, esse cioé consente l'individuazione del molteplice, altrimenti confuso nell'indeterminato.
Operano qui due principi contrapposti: un'armonia visibile che unifica gl'opposti nel loro divenire; e un'armonia invisibile che ospita la totalità degli opposti.
Per Eraclito è solo dalla sua relazione con il negativo che il positivo può manifestarsi in quanto tale.
E' grazie a questa concezione che è possibile quella successiva di Parmenide per il quale l'affermazione del positivo è, eo ipso, allontanamento, negazione, del negativo.
Il positivo è, adesso, l'einai, il quale è pensiero:
... ... infatti lo stesso è pensare ed essere)
La verità di questo assunto basa sulla connessione e perciò non disgiunzione dei due termini, come osserva Galimberti:
Alla presenza dell'essere si riduce il pensare, che non è dell'uomo ma dell'essere. Il pensare è il presentarsi, il manifestarsi, l'esporsi dell'essere. L'essere è verità in quanto presenza, manifestazione, non nascondimento. In questo senso Parmenide dice: "... la stessa cosa è pensare ed essere". Commentando questo frammento Jaspers scrive: "I pensieri filosofici fondamentali, in cui pensiero ed essere sono la stessa cosa e in questa unità sono stati pensati, da Parmenide in poi là dove furono logicizzati, furono profanati." La profanazione consiste nell'isolamento di un termine dall'altro. Responsabile di questo isolamento non è il lògos, che pone il pensiero in unità con l'essere, ma la logica nel suo affermarsi come solitudine del pensiero, nella lontananza del suo contenuto originario. Scrive infatti Parmenide: "Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero saldamente presenti; infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte con cura sistematica, né concentrandolo in sé stesso". Commentando questo frammento di Parmenide, Jaspers scrive che: "Nel nous dunque l'essere è presente nella sua totalità. Perciò l'assente è compresente". (...) La contrapposizione fra lògos e logica riproduce per Jaspers la contrapposizione parmenidea tra verità e apparenza, alétheia e dòxa. In entrambi i casi si ha a che fare con ciò che si manifesta, con questa differenza: che l'alétheia manifesta l'unità del molteplice, la dòxa la sua dispersione. A presiedere l'alétheia è il lògos che raccogliendo unifica, che pensa l'identico come fondamento del diverso, l'essere come essere dell'ente. A presiedere la dòxa è invece la logica che, generando il linguaggio, nomina diversamente lo stesso producendo quella molteplicità che poi essa si incarica di unificare, secondo connessioni che non traggono origine dall'essere ma dai caratteri che gli enti espongono nel loro apparire.[3]
Perciò:
Porre dei nomi diversi per ciascuna cosa significa disperdersi tra il molteplice, che appare nell'oblio dell' Uno che si sottrae onde consentire l'apparire del diverso. L'errore dell'uomo consiste nell'arrestarsi all'apparenza, nel non penetrarla, sì da proibirsi la scoperta dell' Uno. L'apparenza del molteplice accade perchè l'Uno lo consente (...) Anche l'apparenza é dunque inscritta nella necessità dell'essere; il suo carattere fallace (...) nasce dall'isolamento dell'apparenza dall'essere che la fa apparire. Assolutizzata nell'isolamento, l'apparenza attesta la dispersione non unificata, attesta quindi il contrario della verità che, sottraendosi all'attenzione dell'uomo, lascia via libera alla fallacità dell'opinare. Ogni unificazione tentata dalla logica nell'oblio del lògos, vero unificatore, è adikìa, ossia ingiusta connessione, perché, scrive Jaspers: "separa la verità dell'apparenza dal fondamento del suo dispiegarsi". Aletheia è dunque sapere l'apparenza come apparenza di un che d'altro. Dòxa è isolare l'apparenza e assolutizzarla nel suo isolamento. Le due vie che così si dischiudono sono rispettivamente quella del pensiero memorativo dell'essere e quella del pensiero che si afferma nel suo oblio. Allora, scrive Jaspers: "La totalità dell'essere è perduta; l'assente non è più presente, il presente è separato dal passato e dal futuro. Col mondo dell'apparenza sorge il mondo fallace delle opinioni, con le opinioni il mondo stesso dell'apparenza." Alla base di questo capovolgimento è l'assentarsi dell'essere dalla presenza, per cui presente è l'ente, separato da quel passato e da quel futuro che, sulla traccia di Anassimandro, interpretiamo come il termine a quo e il termine ad quem in cui è raccolta la vicenda dell'ente, in quei limiti d'apparenza che l'essere gli concede.[4]

Con Parmenide la concezione dell'essere rimane tuttavia ancora in quell'ambito di significanza proprio della filosofia presocratica, meglio preplatonica, dove il pensiero è il manifestarsi dell'essere, è - prima con Anassimandro, poi con Eraclito e infine con lo stesso Parmenide - il pensiero dell'Uno che è àpeiron, lògos, einai e che come tale tutto accoglie ed al tempo stesso disvela veritativamente nella misura in cui il tutto accolto rimane connesso all'Uno e così salvato dalla dispersione nel molteplice.
Con Platone invece l'ambito di significanza dell'essere si sposta, e perciò ne varia l'orizzonte.
Il luogo in cui ciò accade è - tra gl'altri secondo Heidegger - quello in cui Platone ci manifesta la più alta comprensione dell'essere: il celeberrimo mito della caverna, nell'altrettanto celebre libro settimo della Repubblica che ritengo anzitutto per l'importanza, ma anche per la sua bellezza, valga la pena di citare per intero:
"Ora" ripresi "riguardo alla cultura e alla sua mancanza, immaginati la nostra condizione nel modo seguente. Pensa ad uomini in una caverna sotterranea, dotata di un'apertura verso la luce che occupi tutta la parete lunga. Essi vi stanno chiusi fin dall'infanzia, carichi di catene al collo e alle gambe che li costringono a rimanere lì e a guardare soltanto in avanti, poiché la catena intorno al collo impedisce loro di volgere intorno il capo. In alto, sopra di loro, brilla lontana una fiamma; tra questa e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale è stato costruito un muretto, simile ai paraventi divisori al di sopre dei quali i saltimbanchi mostrano al pubblico i loro prodigi."
"Sì, li vedo" disse.
"Ecco dunque lungo quel muretto degli uomini che portano oggetti d'ogni sorta che sopravanzano il muretto, e immagini di uomini e di animali in pietra, in legno e in fogge d'ogni tipo. Alcuni degli uomini che le portano, com'è naturale, parlano, altri stanno zitti."
"Che strana visione! E che strani prigionieri!"
"Eppure sono simili a noi" risposi. "Pensi, in primo luogo, che di se stessi e dei compagni abbiano visto qualcos'altro se non le ombre proiettate dalla fiamma sulla parete della caverna di fronte a loro?"
"Impossibile," rispose "se sono stati costretti a rimanere per tutta la vita senza muovere il capo!"
"E non si trovano nella stessa situazione riguardo agli oggetti che vengono fatti sfilare?"
"Certo!"
"Se dunque potessero parlare fra loro, non credi che considererebbero reali le immagini che vedono?"
"Inevitabilmente."
"E se la parete opposta della caverna rimandasse un'eco? Quando uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole alla sua ombra?"
"Sì, per Zeus!" rispose.
"Allora per tali uomini la realtà consisterebbe soltanto nelle ombre degli oggetti."
"E' assolutamente inevitabile" rispose.
"Pensa ora quale potrebbe essere per loro l'eventuale liberazione dalle catene e dall'ignoranza. Un prigioniero che venisse liberato e costretto ad alzarsi, a volgere il collo, a camminare e a levare gli occhi verso la luce, soffrirebbe facendo tutto ciò, rimarrebbe abbagliato e sarebbe incapace di mirare ciò di cui prima vedeva le ombre. E se gli si dicesse che prima vedeva solo apparenze vane mentre ora può vedere megli, perché il suo sguardo è più vicino all'essere e rivolto ad oggetti più reali; e se gli si mostrasse ognuno degli oggetti che sfilano e lo si costringesse con alcune domande a rispondere che cosa sia, tu come pensi che si comporterebbe? Non credi che rimarrebbe imbarazzato e riterrebbe le cose che vedeva allora più vere di quelle che gli vengono mostrate ora?"
"Sì, molto più vere" rispose.
"E se egli fosse costretto a guardare proprio verso la luce, gli occhi non gli farebbero male, non cercherebbe di sottrarsi e di fuggire verso ciò che può vedere, e non crederebbe che questo sia in realtà più vero di ciò che gli si vuole mostrare?"
"E' così" rispose.
"E se qualcuno lo strappasse a forza di lì e lo spingesse su per l'aspra e ripida salita, senza lasciarlo prima d'averlo condotto alla luce del sole, il prigioniero non proverebbe dolore e rabbia di venire così trascinato? E una volta giunto alla luce, non è forse vero che con i suoi occhi accecati dai raggi del sole non riuscirebbe a contemplare neppure uno degli oggetti che noi ora consideriamo reali?"
"Sì" rispose "per lo meno non subito."
"Per contemplare quelle realtà superiori dovrebbe abituarsi, io credo. E innanzi tutto vedrebbe con la massima facilità le ombre, poi le figure umane e tutte le altre riflesse nell'acqua, e da ultimo le potrebbe vedere come sono in realtà. Poi sarebbe capace di guardare le costellazioni e il cielo stesso di notte, alla luce delle stelle e della luna, anziché di giorno quando sfolgora il sole."
"Come no!"
"Infine, io credo, contemplerebbe il sole, non la sua immagine riflessa nell'acqua o in qualche altra superficie, ma nella sua realtà e così com'è, nella sua propria sede."
"Per forza!" esclamò.
"E poi si metterebbe a riflettere che è il sole a portare le stagioni e gli anni, a governare tutti i fenomeni del mondo visibile, e che insomma in qualche misura esso è la vera causa di ciò che i prigionieri vedevano."
"Ma è evidente" disse "che a questa riflessione giungerebbe in un secondo tempo."
"E poi che farà? Memore della sua antica dimora e della sapienza di laggiù e dei suoi vecchi compagni di prigionia, non credi che si riterrebbe fortunato per il mutamento della sua sorte, e proverebbe pietà per loro?"
"Sì, indubbiamente."
"Se quelli si attribuissero a vicenda onori, elogi e premi per chi vedesse meglio il passaggio delle ombre e si ricordasse con maggiore esattezza quali passano per prime e quali per ultime e quali insieme, e in base a ciò indovinasse con suprema abilità quelle destinate a passare in ogni momento: credi che egli proverebbe desiderio e invidia dei loro onori e del loro potere, oppure si troverebbe nella condizione dell'eroe omerico e vorrebbe ardentemente lavorare come salariato al servizio di un povero contadino e patire qualsiasi sofferenza, piuttosto che condividere le opinioni di costoro e vivere a modo loro?"
"Sì," rispose "credo che accetterebbe qualsiasi destino pur di non vivere a quel modo."
"E pensa ancora una cosa:" dissi "se quell'uomo scendesse a sedersi di nuovo al suo posto, non sentirebbe male agli occhi per l'oscurità, venendo all'improvviso dal sole?"
"Certo" rispose.
"E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con quegli eterni prigionieri prima che i suoi occhi, ancora confusi, si fossero ripresi, e a riacquistare questa abitudine gli occorresse un certo tempo, non credi che sembrerebbe ridicolo, e si direbbe di lui che l'ascesa gli ha rovinato la vista e che non vale neppure la pena di affrontare la scalata? E non verrebbe ucciso chi tentasse di liberare e far salire gli altri, se solo potessero averlo fra le mani e ucciderlo?"
"Non c'è dubbio" rispose.
"Occorre dunque," dissi "caro Glaucone, riferire tutta questa allegoria a quanto abbiamo detto prima. Paragona il mondo visibile alla dimora in prigione, e la fiamma che vi risplende al sole; e non deluderai la mia attesa considerando l'ascesa verso la contemplazione della realtà superiore come l'ascesa dell'anima verso il mondo intelligibile. Questa è la mia interpretazione, dato che vuoi conoscerla. Ma Dio solo sa se sia vera; in ogni caso io la penso così: l'idea del bene rappresenta il limite estremo e appena discernibile del mondo intelligibile. Quando si è compresa quella, occorre dedurre che essa è causa per tutti di tutto ciò che è retto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il signore della luce, mentre nel mondo intelligibile offre essa stessa la verità e l'intelligenza, e chi voglia comportarsi saggiamente in privato e in pubblico deve contemplare questa idea."

Heidegger vede in questo mito insieme tanto la più alta comprensione della verità intesa come à-letheia - non nascondimento o disvelamento - tanto la deviazione da essa[5].
L'essenza di questo mito è infatti proprio quella del disvelamento della verità, del passaggio dall'oscurità alla luce, al vedere - in greco: all'ìdein - dove la luce inizialmente acceca lo sguardo nascondendo così quell'eidos che apparirà una volta che esso si sarà assuefatto alla luce.
Il significato di quets'essenza appare chiaramente nel confronto del prigioniero liberato che ritorna nella caverna con i suoi compagni di sventura, costoro sono - sempre nell'interpretazione heideggeriana - coloro per i quali la verità è la verità della ombre, ossia coloro i quali hanno limitato l'infinita apertura della verità dell'essere ai limiti circoscritti della verità dell'ente.
Ma, il conseguimento della verità dell'essere impone un trascendimento di questi limiti e dunque un metterli in discussione ed impone - al tempo stesso - il confronto con un rischio: quello dell'accecamento.
Nessun ente infatti può garantire l'apertura entro cui accade lo svelamento dell'essere, perchè l'essere pur identificandosi con l'ente lo trascende e perciò la verità dell'essere è garantita solo nella misura in cui non è identificata e perciò nella misura in cui è distinta dalla verità dei contenuti determinati, cioé ontici.
Solo così infatti il pensiero dell'Uno che è àpeiron, lògos, einai e che come tale tutto accoglie ed al tempo stesso disvela veritativamente nella misura in cui il tutto accolto rimane connesso all'Uno e così salvato dalla dispersione nel molteplice.
.Nella misura in cui invece la verità dell'essere viene identificata con quella dell'ente ci si muove nella direzione della diversificazione dall'essere, ossia, appunto, nella direzione della dispersione nel molteplice, nella direzione della dimenticanza o obblìo - in greco léthe - dell'essere, in direzione contraria a quella dell' à-letheia.
Solo il continuo trascendimento di qualsiasi ente apre l'orizzonte del disvelamento dell'essere.
E' questo il senso dei passaggi che dalle tenebre portano alla luce i quali sottraggono l'ente al suo nascondimento, obblio (lethe) in cui sarebbe rimasto se non fosse trasceso dall'infinita luminosità dell'essere e, appunto, lo disvelano (àletheia).
Ora il disvelarsi dell'ente è il suo rapportarsi all'essere che avviene con una serie di trascendimenti successivi, cioé progressivamente e perciò istituendo una gerarchia sino a giungere alla luminosità piena del suo rapporto con l'essere alla luce del quale solo può essere garantita la stessa verità dell'ente.
Le ombre della caverna infatti rinviano alla luce del fuoco, questo alla luce e al calore del sole da cui esso - come ogni cosa - è generato.
E' a questo punto che si trova - secondo - Heidegger quella deviazione radicale platonica che determinerà l'obblio dell'essere per tutta la successiva filosofia occidentale.
Il sole infatti non è posto nel mito come avrebbe dovuto essere, ossia come simbolo o immagine dell'essere perciò dell'essere che è il pensiero dell'Uno, che è àpeiron, lògos, einai e che come tale tutto accoglie ed al tempo stesso disvela veritativamente nella misura in cui il tutto accolto rimane connesso all'Uno e così salvato dalla dispersione nel molteplice.
Il sole è qui invece simbolo o immagine dell'Agathòn, che la filosofia ha interpretato come "Bene", ma qui - osserva Heidegger - l'orizzonte non è morale, bensì metafisico e tò Agatòn sgnifica qui in greco ciò che è atto a qualcosa e che rende atto a qualcosa, ossia: "ciò che è buono a ..." quindi: ciò che è buono a far essere e far apparire ogni cosa, il "Bene" è perciò inteso come causa, come essere causa di tutto ciò che è, è l'ente sommo che presiede l'essere e l'apparire di ogni cosa.
Ci sarebbe qui perciò - secondo l'interpretazione di Heidegger - all'ultimo una radicale inversione: la verità dell'essere è esplicitata come verità dell'ente, ci si muove allora sulla linea della dispersione nel molteplice, ossia nella direzione dell'obblio dell'essere e questa resterà nei secoli la direzione del movimento di tutta la tradizione filosofica occidentale.
Inoltre, come in proposito osserva Galimberti:
L'introduzione del rapporto causale muta la prospettiva metafisica, nel senso che prima l'essere era inteso come lo stesso presentarsi degli enti, come il loro manifestarsi nell'accadimento, ora invece l'essere è inteso come un ente, l'Ente supremo, il cui valore (bonum) consiste nel causare gli enti, che sono finché l'azione causante li mantiene e li conserva. Gli enti, a questo punto, non sono più un libero accadere dell'essere, ma dipendono da quel processo causale che fa capo a quell' Ente supremo espresso dall'idea di Bene.[6]

Ed ancora:
Posto il Bene al vertice dell'universo eidetico (ossia dell'iperuranio platonico o luogo delle idee), l'essenza delle idee, che del Bene si nutrono, consisterà nel loro essere causa di ogni positività che si rivela, cioè dell'essere dell'ente, per cui, come scrive Heidegger: "Per tutte le cose e per la loro cosalità l'idea suprema è l'origine, cioè la causa.[7]

Ma soprattutto:
Nonostante la terminologia platonica conservi nel termine eidos (idea) la radice "id" da cui idein che esprime l'atto di "vedere", in Platone il termine "idea" non fa più riferimento all'atto del presentarsi (Anwesen) dell'ente, ma al contenuto essenziale (Wassein) che sta oltre ciò che si presenta. Ciò che si mostra non è più considerato nel suo svelarsi, ma nel suo riferirsi a ciò (l'idea) che rende possibile e quindi causa la vista (idein) di ciò che si manifesta. Analogamente la verità non è più lo sguardo su ciò che svelandosi non si nasconde (à-letheia), ma è il corretto riferimento (orthòtes) che si instaura tra ciò che si percepisce e l'idea fatta cosa (Wassein). In questo senso, Heidegger può dire: "La verità si pone sotto il giogo dell'idea". Il giogo esige il corretto indirizzarsi dell'idein all'idea, dalla cui adeguazione nasce un homoìosis o concordanza tra conoscente e conosciuto. Si passa così dal concetto originario di verità come àletheia al concetto di verità come homoìosis o adaequatio. In forza di questo passaggio la verità cambia luogo: da proprietà dell'essere diventa proprietà dell'uomo, in quanto l'attenzione non è più rivolta all'originario manifestarsi (àletheia) dell'ente, ma al corretto (orthòtes) rapportarsi dell'uomo all'ente. Lungo questa via la verità viene a coincidere con l'esattezza del vedere e del giudicare umano.[8]

Possiamo chiudere qui il confronto con l'orizzonte nel quale si muovevano i presocratici ed al quale si rifanno in parte anche Heidegger, Jaspers e Galimberti non senza alcune considerazioni.

Anzitutto va precisata l'interpretazione del mito: la "caverna" è per Platone la corporeità e dunque la materialità dell'uomo - ed è vero che questa è entità e dispersione nella molteplicità - ma va altresì chiarito che l'orizzonte è qui quello platonico per il quale il fine dell'uomo è quello della "spiritualità" del "", dell' "Uno", (unità dell'uomo con Dio, dell'uomo con la donna, etc.), e che l'uomo può muovere ad esso e perciò conquistare il piano del presentificarsi o manifestarsi dell'essere solo nella misura in cui uscendo dalla caverna (= corporeità /materialità) e superandola, egli si apre alla dimensione dello "Spirito" e si rapporta a Dio.  

La positività del piano sul quale Heidegger, Jaspers e Galimberti - come prima di loro i presocratici - si muovono è senz'altro quella di aver messo in chiaro che l'uomo debba collocarsi sull'orizzonte del manifestarsi, del presentarsi dell'ente e ciò trascendendo la molteplicità, nella direzione dell'unificazione, nella direzione dell'essere.
Questo tuttavia è - a mio giudizio - insufficiente: non basta.
E' necessario altro: nel fare questo è infatti necessario che tanto quell'orizzonte, quanto i singoli enti e l'uomo stesso siano "illuminati" dal "Bene"; è questa la giusta e geniale intuizione di Platone nel mito della caverna.
Va fatta poi una rettifica alla interpretazione di Heidegger.
E' vero che "quoad nos" la verità nel nuovo orizzonte così dischiuso si configuri come adaequatio intellectus et rei, ma è altresì vero che questo intelletto è quello che è chiamato a collocarsi nell'orizzonte di presentificazione, di manifestazione degli enti, volgendosi ad essi nella direzione, trascendente la molteplicità, perciò volgendosi nella direzione dell'unificazione, dell'essere, lasciandosi in questo illuminare dal Bene; ora questo Bene che è Agape, mostrandosi perciò "rivelandosi" all'uomo, non solo Si rivela all'uomo, ma rivela all'uomo la sua vera immagine di uomo ed al tempo stesso quella degli enti: dunque la verità non è la verità dell'uomo ma quella dell'Agape.
L'uomo può cogliere questo solo se ha la disponibilità di aprirsi a tutto ciò ma per questo non solo deve volgersi all'orizzonte di manifestazione o presentazione dell'ente volgendosi nella direzione della trascendenza e dell'unificazione - in direzione cioé opposta a quella della dispersione nel molteplice - ma al tempo stesso aprendosi alla illuminazione rivelazione del Bene, l'uomo deve cioé disporsi nella "sua" collocazione che è quella che gli compete: la dimensione dell'ascolto.
Non è un caso che uno dei più insigni teologi del Novecento Karl Rahner, guarda caso di scuola heideggeriana abbia intitolato una delle sue opere più importanti proprio Uditori della Parola.
Da chi ha queste posizioni il volgersi nella direzione opposta a quella dell'unificazione, o il prescindere da essa e perciò il volgersi nella direzione della dispersione nel molteplice è sempre stato condannato - al pari che, giustamente, da Heidegger, Jaspers e Galimberti - come "secolarismo".
Nel nuovo orizzonte aperto da Platone - che dunque non nega ma amplia il precedente - si muove, pur con diverse varianti, proseguendone il cammino, il suo discepolo Aristotele, il quale si volge alla dimostrazione della sostanza (perciò dell'ente) soprasensibile.
Aristotele dimostra l'esistenza della sostanza soprasensibile partendo dalla costatazione dell'esistenza del divenire e del movimento.
Il ragionamento è questo: le realtà prime sono le sostanze[9], ora se tutte le sostanze fossero corruttibili, non vi sarebbe nulla di incorruttibile, ci sono però delle realtà incorruttibili: il movimento ed il tempo, che altro non è se non una determinazione del movimento, infatti senza tempo non c'è movimento, l'eternità dell'uno implica quella dell'altro.
Se però esiste un movimento eterno allora deve esistere un Principio primo che ne sia la causa.
In conclusione: poichè c'è un movimento eterno, è necessario che ci sia un Principio eterno che lo produca, ed è necessario che tale Principio sia a) eterno, se eterno è ciò che esso causa, b) immobile, se la causa assolutamente prima del mobile è l'immobile e c) atto puro, se è sempre in atto il movimento che esso causa.[10]

Il modo in cui l' "Essere" muove è lo stesso in cui l'intelligibile muove l'intelligenza o l'amato l'amante: la sostanza soprasensibile, l' "Essere", "Dio", muove attraendo, ossia a guisa di fine:
... la causalità del Motore Immobile è quindi, propriamente, una causalità di tipo finale. Il mondo, che è costantemente attratto da Dio come fine supremo, non ha avuto un cominciamento. Non c'è stato un momento in cui c'era il caos (o il non cosmo), proprio perché, se così fosse, sarebbe contraddetto il teorema della priorità dell'atto sulla potenza: prima sarebbe il caos che è potenza, poi sarebbe il mondo, che è atto. E sarebbe anche assurdo in quanto Dio, essendo eterno, dall'eternità doveva necessariamente attrarre come oggetto d'amore l'universo, che dunque, da sempre ha dovuto essere quale è.[11]

Ma allora, propriamente, cosa, o chi è questo "Essere" o "Dio", o "atto puro"?
Aristotele risponde così:
Ora il pensiero che è pensiero per sè ha come oggetto ciò che è di per sè più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L'intelligenza pensa se stessa, cogliendosi comeintelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza e intelligibile coincidono. L'intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l'intelligibile e la sostanza[12], ed è in atto quando li possiede. Pertanto più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l'intelligenza; e l'attività contemplativa è ciò che c'è di più piacevole e di più eccellente. Se dunque, in questa piacevole condizione noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è vita, perché l'attività dell'intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell'attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo infatti che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo dunque è Dio.[13]

L'essere è anche qui il sommo ente che in quanto tale è l'ente causante, ma si va oltre, esso non è più il "Bene", ma l'autocoscienza, la somma autocoscienza, dunque il causante è un causante razionale.
L'essere è in quanto coscienza.
Dio è soggetto, il "Soggetto" per eccellenza.
E' quanto giungerà a piena chiarezza e maturazione - né poteva essere altrimenti - con gl'autori ispirati religiosamente, più precisamente con quelli ispirati per fede in un Dio che è autocoscienza, che è "Persona".
Definire Dio come "Soggetto", è preconizzare, preannunciare un incontro tra "Filosofia" o "Ratio" e "Fede", incontro che è eletto a portare a compimento chi le ha entrambe, è l'incontro tra la cultura greca e la fede giudaica.
I primi a compierla saranno l'evangelista S. Giovanni e l'apostolo  S. Paolo.
Il Lògos greco è radicato da S. Giovanni in quel compimento del giudaismo che è il cristianesimo con il celebre inno che è il prologo del suo vangelo.
In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo
Questi era in principio presso Dio.
Tutto per mezzo di Lui fu fatto
e senza di Lui non fu fatto
assolutamente nulla di ciò che è stato fatto.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;[14]

Significativamente S. Paolo porta questa sintesi anzitutto idealmente, ma soprattutto concretamente nell'Areopago di Atene.
Ateniesi, sotto ogni punto di vista io vi trovo sommamente religiosi. Infatti, passando e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare su cui stava scritto: "Al Dio ignoto". Orbene, quello che voi venerate senza conoscerlo, io vengo ad annunciarlo a voi...[15]

S. Tommaso d'Aquino è invece senz'altro colui che porta questa sintesi al suo pieno compimento.
Egli dopo avere esperito in modo "positivo", attraverso le cinque vie, l'esistenza di Dio prosegue a questo punto attingendo alla Rivelazione, in particolare, secondo l'insegnamento dei Padri della Chiesa ed in particolare S. Agostino, alla manifestazione di Dio a Mosé nel roveto ardente, dove egli gli si rivela come "sum qui sum".
Sono molto indicative le elucidazioni proposte a riguardo da Edith Stein:
Desidero tentare ora di trattare l'ultima delle domande sull' Essere da un punto di vista totalmente diverso: da quel nome con il quale Dio ha chiamato se stesso: "Io sono chi Io sono". Mi sembra assai significativo che qui non si dica "Io sono l'Essere" oppure "Io sono l'essente", bensì "Io sono chi Io sono". Quasi non ci si azzarda ad interpretare queste parole tramite altre. Se però è appropriata l'interpretazione agostiniana, allora se ne può dedurre: Colui il cui nome è "Io sono", è l' "Essere in Persona". Che il cosìddetto primo essente debba essere persona è già evincibile da molte delle cose già dette: solo una Persona può creare, ossia chiamare all'essere con la forza della propria volontà. E d'altronde, l'agire di una causa prima non è concepibile se non come atto libero, perché ogni agire che non fosse atto libero sarebbe causato e dunque non atto primo. Rinviano ad una Persona anche l'ordine razionale e l'ordine ad un fine del creato: solo un essere razionale può porre in atto un ordine razionale; solo un essere conoscente e volente può porre fini e preordinarvi i mezzi. Ragione e libertà sono i connotati essenziali della persona.[16]

Tutto ciò però implica delle considerazioni, che sebbene non sia questo il luogo ove svilupparle, vanno almeno brevemente accennate.
Affermare che Dio sia soggetto è implicare, si voglia direttamente o indirettamente un rapporto, una relazionalità tra il Soggetto infinito, eterno, da un lato ed il soggetto finito dall'altro.
La metafisica allora implica una religiosità, ossia un modus di questa relazione ed una mistica, ovvero una concrezione sul piano individuale di questa relazione.
San Tommaso d'Aquino identifica il modus di questa relazione in quello indicato dalla religione cristiana e la sua concrezione in quello indicato dalla mistica della stessa.
Personalmente ritengo che una mente come quella di un Platone o di un Aristotele non possano non essersi già rese conto del fatto che una metafisica implichi una religiosità, ossia un modus di questa relazione ed una mistica, ovvero una concrezione sul piano individuale di questa relazione.
Ritengo che sia proprio questo ciò che non faceva parte della tradizione scritta che è stata tramandata e ci è pervenuta, ma di quella tradizione che era partecipata solo agli iniziati, della quale sappiamo per certo che sia esistita, ma della quale non ci è pervenuto nulla.
Dagli scritti pervenutici, tanto da quelli di Parmenide, quanto quelli di Platone ed Aristotele - a ciò bastano già i passi citati nel presente scritto -, possiamo inferire che si trattasse di una religiosità razionalistica e razionaleggiante.
Da questo ed insieme anche dal processo intentato a Socrate, riportato dal suo allievo Platone, e dalle accuse riportate anche contro gli stessi Platone ed Aristotele suo discepolo, si può inferire che essa fosse una religiosità, già nei suoi scritti divulgativi, quelli tramandatici, in aperto contrasto con la religiosità ufficiale della società dell'epoca e sovversiva nei suoi confronti.

Questa implicazione viene fuori in tutta la sua portata in S. Tommaso d'Aquino.
Egli è tra i grandi pensatori metafisici quello in cui appare chiaro che definire l' "Essere" come pensiero di pensiero, come - con le sue parole - "actus purus", come - platonicamente - causa dell' essere di ogni cosa, e perciò creatore, è implicare un rapporto tra creatura e cretore.
E' un rapporto nel quale la creatura procede dalle cose create muovendo per analogia verso il suo Creatore, del quale, procedendo - oggi diremmo "scientificamente" - tramite le celebri "cinque vie" (1. primum movens quod in nullo moveatur; 2. causa efficiente prima incausata; 3. generazione e corruzione di tutti gl'enti suppone un ente primo necessario per sé; 4. i gradi di perfezione suppongono un ente primo perfetto; 5. tutti gl'enti e la natura sono ordinati ad un fine e dunque suppongono un principio intelligente che le ordini a tale fine) essa può accertare solo la semplice esistenza.
La creatura - qui l'uomo - è, com'egli lo definisce, "l'essere che per sua natura non è e non può essere fondamento a sé stesso (solo Dio lo è)" e perciò non è in grado, nella sua esistenza terrena di non conoscere di Dio altro se non ch'egli esista.
Parte perciò necessariamente da Dio il suo rivelarsi all'uomo, il quale insieme rivela all'uomo la verità dell'uomo stesso.
L'uomo dunque può andare oltre la semplice conoscenza dell'esistenza di Dio con la fede e la rivelazione.
S. Tommaso è il grande metafisico in cui è apertamente tematizzata l'implicazione dell'affermazione che l' "Esssere" sia pensiero di pensiero, o, come diremmo oggi, Soggetto: dire che Dio sia Soggetto è implicare un rapporto tra "Il Soggetto" ed il soggetto umano.
E' implicare il piano religioso e quello mistico.
L'aquinate, al tempo stesso delimita e separa questo piano da quello scientifico, filosofico, metafisico: su quest'ultimo, tramite le cinque vie l'uomo può arrivare a conoscere l'esistenza di Dio; sul primo l'uomo può rapportarsi in modo più completo a Dio in misura dei termini della relazione e della propria fede.

Qui, nel primo articolo della prima "Quaestio" del De Veritate, S. Tommaso affronta il discorso sull' "Essere" sul piano metafisico.
Il discorso sull' "Essere" - di contro a quello sulla determinazione che si collocava sul piano ontico - si pone sul piano ontologico.
E' il piano che consegue all'essere preso nella sua universalità, cioé trascendentalità:
La seconda maniera si ha quando il modo espresso è un modo generale che consegue a ogni ente...[17]

E' il piano sul quale incontriamo i cosìddetti trascendentali: res, unum, aliquid, bonum, verum.
L'identificazione / distinzione di questi con l'essere costituisce il cosìddetto piano trascendentale proprio, quello con l'ente, il piano trascendentale derivato: l'ente è uno, vero, buono, in quanto e nella misura in cui partecipa all'essere.
Le vie del piano ontologico sono anch'esse due:
...questo modo può essere duplice: o in quanto segue ogni ente in sé, o in quanto segue un ente in ordine ad un altro ente.[18]

L'ente considerato in sé, la prima via, può esprimersi positivamente o negativamente.
L'espressione positiva, o assoluta dell'ente considerato in sé, è la "res", infatti
Ciò che esprime in maniera assolutamente affermativa l'essere è la sua essenza (determinazione, partecipazione), ossia il modo di essere.[19]

L'ente, sintesi di essere e determinazione - riferisce, rapporta principalmente all'essere, "ens dicitur ab esse", ed all'atto di essere "ens sumitur ab actu essendi", la sua manifestazione o affermazione positiva è la res o quidditas o essenza, "nomen rei exprimit quidditatem vel essentiam entis".
Propriamente il piano della determinazione dell'ente è il piano ontico, qui però la res è considerata quale epressione positiva assoluta e perciò trascendentale dell'ente, è, quella qui intesa, la considerazione trascendentale della onticità dell'ente.
L'espressione negativa dell'ente considerato in sé è l'uno (unum), cioè l'indivisione:
... la negazione poi che consegue a ogni ente in modo assoluto è l'indivisione, la quale viene espressa dal nome "uno": infatti l'uno non è altro che l'ente indiviso.[20]

L'uno come affermazione assoluta è la negazione della opposizione assoluta dell'essere, il non essere, esso è la negazione della negazione, l'esclusione dell'opposizione e quindi l'affermazione dell'essere come posizione assoluta.
L'uno come affermazione assoluta dell'essere è anche negazione della possibilità, perchè il possibile in quanto tale non è.
Allora, come negazione della negazione, l'uno è l'unità dell'essere, è identità.
Questa esplicitazione nell'unità si traduce derivatamente sul piano dell'ente: l'ente è ente per l'essere e, allo stesso modo, è necessariamente uno per l'essere: l'unità dell'ente è l'unità del suo essere; in quanto e nella misura in cui è, l'ente, ogni ente, è indiviso, non opposto, indivisibile, identico.[21]

La seconda via del piano ontologico, è quella dell'ente preso per ordine ad altro.
Anch'essa è duplice, infatti l'ente considerato in relazione ad altro è o diviso, divergente, o conveniente, convergente.
Come diviso, divergente, esso è aliquid, ossia aliud quid, è qualcosa di altro, cioè un altro qualcosa:
Se invece il modo dell'ente è preso per ordine ad altro, allora o si ha la divisione di una cosa dall'altra e ciò è espresso dal nome  "qualcosa" (aliquid): si dice infatti aliquid  nel senso di aliud quid, cioè di "un altro qualcosa", per cui come l'ente si dice uno in quanto è indiviso in sé, così si dice qualcosa in quanto è diviso dagli altri...[22]

Sul piano ontologico proprio, il piano dell'essere, non si dà alterità, in quanto l'altro dall'essere, il non essere, è negato dall'uno, negazione della negazione; con una semplificazione rozza: su questo piano, anche ciò che è diverso, è, ed in quanto tale è essere, per cui non c'è diversità.
L' aliquid compare sul piano ontologico derivato quale considerazione ontologica della determinazione dell'ente, parafrasando Tommaso
... per cui come l'ente si dice "uno" in quanto è indiviso in sè, così si dice "qualcosa" in quanto è diviso dagli altri...

con Molinaro:
... l'ente è indiviso in sé in quanto è ed è diviso da ogni altro in quanto determinato. Ogni determinazione, poiché implica divisione, opposizione rispetto a un'altra, implica sempre un'altra determinazione.

Su questo piano, quello ontologico derivato, ogni determinazione esclude ogni altra determinazione, come dirà Spinoza: "omnis determinatio, negatio".
La negazione inerisce la dterminazione, l'affermazione inerisce l'essere, perciò ogni determinazione in quanto affermazione assoluta è ed è essere, in quanto determinazione è negazione determinata.
L'ente considerato per ordine ad altro è anche conveniente, convergente: "oppure si ha la convenienza (convergenza) di un ente con un altro.
Ora, perché tutto ciò che è in quanto è, ossia tutte le cose in quanto sono, possano convergere, convenire, è necessario qualcosa in cui questa convergenza possa avvenire, dunque qualcosa che sia conveniente con ogni ente, questo qualcosa in cui questa convergenza possa avvenire è l'anima.
L'anima, ossia il quid in cui tutte le cose che sono possono convergere, è, a sua volta, essere, sia perchè l'altro dall'essere è il non - essere (ma l'anima non può essere un "non essere"), e si avrebbe il contraddittorio che l'essere converge nel non  - essere, sia perché l'anima, perché tutto possa convergere in essa, deve poter essa stessa convenire con tutto, e, perciò, di nuovo, essere anch'essa essere.
Tra l'anima e l'essere perciò non c'è separazione, né opposizione, c'è una distinzione, la quale è interna all'essere, e perciò autodistinzione.
Nell'anima allora - che è il quid in cui tutte le cose possono convergere e che può essa stessa convenire con tutto - si compie la relazione dell'essere sia ai trascendetali, sia all'ente determinato.
Si ha allora un piano ontologico proprio sul quale si relazionano l'essere ed i trascendentali, ed un piano ontologico derivato sul quale si relazionano l'essere e l'ente determinato.
Per quanto concerne il primo - il trascendentale proprio -, Tommaso osserva: "Nell'anima però vi è una forza cognitiva ed una appetitiva" essa cioé ha due forze o potenze: quella conoscitiva o intellettiva, e quella appetitiva o volitiva, essa perciò può compiere la sua relazionalità con l'essere tanto con l'una quanto con l'altra di queste due potenze.
Se la relazionalità in quanto identificazione con l'essere è compiuta tramite la potenza intellettiva si ha la verità che è adeguazione dell'essere con l'intelligenza, la conformità dell'essere con l'intelligenza.
Se invece essa è compiuta tramite la potenza volitiva, si ha la bontà, che è conformità della volontà con l'essere.
La direzione delle due relazionalità è opposta, a costituire due emicicli: la prima è dall'essere all'intelligenza, la verità è la presenza dell'essere all'intelligenza, l'essere si conforma all'intelligenza divenendogli interiore; la seconda è dalla volontà all'essere in quanto la volontà si compie nell'essere, è perciò una realizzazione:

Essere    ------------->  Intelligenza
Interiorizzazione
Verità = presenza dell' Essere all'intelligenza

Volontà  ------------->  Essere
Realizzazione
Bontà = compimento della volontà nell'Essere

Si spiega così come, in quanto trascendentali, la verità e la bontà abbiano la stessa estensione dell'essere: l'essere, tutto l'essere, è verità e tutta la verità è essere; l'essere è bontà e la bontà è essere.
Ma, se tutto l'essere è verità e bontà, allora anche l'intelligenza e la volontà, in quanto essere sono verità e bontà.
Ora, l'intelligenza implica l'intelligibile, ne è necessariamente correlata, similmente la volontà il volibile.
L'intelligibile ed il volibile sono anch'essi essere, come i loro correlati, perciò la loro stessa correlazione - intelligenza / intelligibile, volontà / volibile - dice che l'essere è intelligenza ed intelligibile, volontà e volibile, in sé e per sé.
La correlazione intelligenza / intelligibile è necessariamente intelligenza in atto e intelligibile in atto.
L'inseità e la perseità sono perciò attualità, ossia intellezione, ma l'intellezione dell'in sé e per sé è autocoscienza.
Similente per la correlazione volontà / volibile, l'essere è attualmente ciò che vuole e ciò che è voluto, perciò volizione in atto, autopossesso, realizzazione di sé con sé.
Per quanto concerne il piano ontologico derivato, è qui che abbiamo a questo punto il rapporto con l'ente determinato, anch'esso duplice: 1). da una parte l'ente la cui determinazione è l'intelligenza e dall'altra l'ente la cui determinazione è l'intelligibilità. 2). da una parte l'ente la cui determinazione è la volontà e dall'altra quello la cui determinazione è la volibilità.
Consideriamo anzitutto il primo, il rapporto tra l'ente la cui determinazione è l'intelligenza e quello la cui determinazione è l'intelligibilità.
L'intelligenza, per definizione intelligenza dell'ente, è la verità logica, la conoscenza, è l'adeguazione cosciente dell'ente con l'intelligenza, la quale si esprime nel giudizio: x è z:
... la verità intesa come conoscenza dell'adeguazione tra il conoscente ed il conosciuto si realizza nel giudizio: solo in esso infatti la mente riflette sui contenuti dell'apprensione per affermare la loro corrispondenza alla realtà.[23]

Le parole celeberrime di Tommaso sono:
... ogni conoscenza si compie attraverso l'assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta, così che l'assimilazione è detta causa della conoscenza, (...) : la prima comparazione dell'ente all'intelletto è dunque che l'ente concordi con l'intelletto, la quale concordanza è detta "adeguazione della cosa e dell'intelletto", e in ciò formalmente si compie la definizione di "vero". Questo è dunque ciò che il vero aggiunge sopra l'ente: la conformità, cioè l'adeguazione, della cosa e dell'intelletto, alla quale conformità, come si è detto, segue la conoscenza della cosa: così dunque l'entità della cosa precede la nozione della verità, ma la conoscenza è un certo effetto della verità.[24]

L'intelletto, perciò, si adegua alla cosa, all'ente determinato come intelligibile.
L'intelligibilità dell'ente è la verità ontica, essa è il contenuto dell'intelligenza, la verità ontica è ciò su cui si fonda quella ontologica.
L'adeguazione è tra due termini, l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e la realtà:
Soltanto in Dio l'adeguazione tra pensiero e realtà raggiunge il vertice di una totale identità. L'intelligenza di Dio è assolutamente vera, al punto da identificarsi con il suo essere (veritas mentis); allo stesso modo, l'essere divino è massimamente vero (veritas rei) perchè è identico alla sua intelligenza. Dunque in Dio non c'è distinzione tra verità della mente e verità della cosa, tra intelligenza ed intelligibilità.[25]

Nell'intelligenza umana la verità è invece un'adeguazione tra due istanze, l'intelligenza e la cosa o l'intelligibile.
E' la verità ontica - come si è detto - quella che fonda quella ontologica, allora siccome i due termini dell'adeguazione non sono identici, è il primo, l'intelligenza, che deve adeguarsi al secondo, la cosa.
La cosa dunque "misura" (non quantitativamente) l'intelligenza, o, con altri termini, l'intelligenza è misurata dalla cosa.
Ciò è dovuto al fatto che qui tanto l'intelligenza (che non sempre è intelligenza in atto) quanto l'intelligibile (che non sempre è termine dell'intelligenza) contengono un elemento di potenzialità da cui origina la distinzione, all'interno della verità logica tra intelligenza ed intellezione, come, al tempo stesso, la distinzione tra verità logica e la verità ontica.
Questo momento di potenzialità è superato nella intellezione dove intelligenza ed intelligibile sono in atto.
E' la ripetizione di quanto nell'anima già accadeva a livello della sensazione:
E' possibile infatti che chi possiede l'udito non oda, così come l'oggetto sonoro non sempre risuona. Quando però ciò che è capace di udire ode in atto, e ciò che è capace di suonare suona, allora l'udito in atto ed il suono in atto si producono simultaneamente.[26]

Perciò come è necessario nella sensazione che percepiente e percepito siano simultaneamente in atto, così è necessario nella intellezione che siano simultaneamente in atto intelligenza ed intelligibile.
Quando ciò accade nell'intellezione,
si attua una perfetta identità tra verità ontica, tra misura misurata (l'intelligenza) e misura misurante (l'intelligibilità), identità in cui cadono tanto il momento "misurata" quanto il momento "misurante" e resta la "misura" come verità.[27]

Da quanto si è detto si può concludere circa la verità con Tommaso che "In base a ciò si trovano tre definizioni del vero o della verità":
1). "Verum est id quod est" (è la definizione che l'aquinate trae dai Soliloqui di S.Agostino).
2). La verità è la verità dell'adaequatio, ossia del giudizio.
3). "Verum est declarativum et manifestativum esse".
Ma allora, se la verità è ciò che è ("verum est id quod est"), sul piano ontologico proprio essa è la verità dell'essere e l'essere che è verità, e questa è vera, sul piano ontologico derivato, la verità è la verità cosciente dell'adaequatio, e pure questa è vera, infine, la verità è ciò che è dichiarativo e manifestativo dell'essere, e questa è anche vera, dove sono la falsità e l'errore?
La falsità e l'errore esistono solo sul piano ontologico derivato, cioé come errore e falso del particolare, più specificatamente si può rispondere con Sanguineti:
L'intelligenza umana si costituisce nella verità quando giudica le cose secondo il loro essere, e cade in errore quando risulta una discordanza tra ciò che pensa e ciò che è.[28]

Per quanto concerne invece la considerazione, sul piano ontologico derivato, della bontà, ossia del rapporto tra l'ente la cui determinazione è la volontà e quello la cui determinazione è la volibilità, essa è sostanzialmente analoga a quella precedente con alcune eccezioni derivanti da quanto già detto.
All'ente la cui determinazione è la volontà corrisponde la bontà intenzionale, a quello la cui determinazione è la volibilità la bontà ontica; la prima è l'intenzione, la seconda il suo compimento.
C'è una differenza di fondo con la considerazione della verità: lì si andava dall'essere all'intelligenza, l'intelligibile era interiorizzato; qui si va dalla volontà all'essere, la volontà si rende presente all'ente che lo attrae e così si realizza.
Anche qui c'è il momento di potenzialità, volontà e volibile non sempre sono in atto, lo divengono nella volizione, la quale, anche qui, attua la perfetta identità tra bontà ontica e bontà intenzionale.
Anche  qui sul piano ontologico proprio non c'è il male, perché l'essere è bene ed il bene è essere, il male esiste sul piano ontologico derivato in quanto privazione del bene dovuto, cioé privazione di una determinazione dovuta all'ente che è buono.
Per Tommaso cioé
Il male, come aveva insegnato Agostino, erudito a sua volta da Plotino, non è una realtà positiva, è una privazione, è la mancanza di qualcosa che dovrebbe esserci, come la cecità è la mancanza di qualcosa nell'occhio; e può essere o mancanza di un elemento naturale o mancanza di ordine al fine proprio liberamente voluta da una creatura razionale. Questo secondo è la colpa, il male morale (malum culpae) - che è il male più grave - il primo è il malum poenae il dolore in tutte le sue forme.[29]





[1] Anassimandro, fr. B 1
[2] Jaspers, Die grossen Philosophen.
[3] Galimberti Umberto, Il tramonto dell'occidente, 20 L'einai di Parmenide.
[4] Galimberti Umberto, Il tramonto dell'occidente, 20 L'einai di Parmenide.
[5] Heiddegger, Platons Lehre von der Wahrheit.
[6] Galimberti, Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[7] Galimberti, Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[8] Galimberti, Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[9] I caratteri definitori di "sostanza" per lo stagirita sono: a) ciò che non inerisce ad altro e non si predica di altro; b) ciò che può sussistere per sé; c) ciò che è alcunché di determinato; d) ciò che ha intrinseca unità; e) ciò che è atto o in atto. Ora la materia ha solo il primo carattere ed è perciò sostanza solo in senso debole. La forma e il sinolo hanno invece tutti i caratteri, dal punto di vista empirico è sostanza l'individuo concreto (ossia il sinolo), dal punto di vista metafisico sostanza prima è la forma.
[10] Reale Giovanni, Introduzione a Aristotele, pag. 65
[11] ivi, pag. 66
[12] Si ricordi che Aristotele intende la sostanza eminentemente nel significato di forma, ossia di essenza.
[13] Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072 b 18 - 30.
[14] Gv. 1, 1-4
[15] At. 17, 22-23
[16] Stein Edith, Endliches und Ewiges Sein; Der Name Gottes: "Ich Bin", pag. 317 (traduzione mia)
[17] De Veritate, Q I, a1.
[18] De Veritate, Q I, a1.
[19] Molinaro, Metafisica, pag. 87
[20] De Veritate, Q I, a1.
[21] Molinaro, Metafisica, pag. 93
[22] De Veritate, Q I, a1.
[23] Sanguineti, Logica e gnoseologia, pag. 265
[24] Tommaso, De Veritate, QI, a1.
[25] Sanguineti, Logica e gnoseologia, pag. 267
[26] Aristotele, De Anima, libro III, 429 a
[27] Molinaro Aniceto, Metafisica, pag. 103
[28] Sanguineti J.J. Logica e gnoseologia, pag. 267
[29] Vanni Rovighi Sofia, Introduzione a S. Tommaso, pag. 78

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