E' il piano proprio dell'
"Essere", ove esso si manifesta quale Uno, Vero e Buono.
E' qui opportuno anzitutto confrontarsi
con il "significato" dell' "Essere" e con la sua
evoluzione.
Si è ritenuto confacente a ciò seguirne
l'evoluzione storica iniziando dal significato assunto nei presocratici e procedendo con un'analisi moderna che però
si mantiene nell'orizzonte presocratico quale quella di Heidegger, a volte
Jaspers, e di Galimberti, la quale - sebbene sia tarata dal limite di restare
in quell'orizzonte e perciò non cogliere appieno anche le grandezze e le
bellezze a cui apre la successiva concezione dell'essere - ha il pregio di
illustrare bene tanto l'orizzonte della significazione presocratica dell'
"essere", quanto di cogliere molto bene i punti e le modalità in cui
quell'orizzonte viene superato dalla configurazione del nuovo orizzonte che la
nuova significazione dell' "essere" apre.
Secondo Jaspers, se prescindiamo dalle
successive categorie interpretative e torniamo a quelle originarie, la prima
concezione dell' "essere" può essere individuata nell'
"Apeiron" di Anassimandro:
Principio di tutte le cose è l' àpeiron che comprende in sé
tutte le cose ed a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove
infatti gli esseri hanno origine lì hanno anche la distruzione secondo
necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione
dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo.[1]
L' àpeiron, indeterminabile, illimitato
ed infinito senza inizio e senza fine è l'orizzonte entro cui si manifestano
gli enti, l'orizzonte nel quale essi si presentano e l'orizzonte nel quale è da
cogliere il senso del principio e del governo degli enti.
La concezione di questa strutturazione
sarà mantenuta tanto in Eraclito quanto in Parmenide.
Si tratta perciò di stabilire cosa sia,
in cosa consista l'indeterminabilità di questo indeterminato che comprende in
sé, che è l'orizzonte in cui si presentano, si manifestano tutti i determinati
e tutte le determinazioni e le dterminabilità e quale sia la sua legge.
Ecco allora il lògos di Eraclito come
bene lo spiega Jaspers:
Il lògos è l'indeterminato infinitamente determinabile, è
l'unità degli opposti e la totalità onnicomprensiva come tutte le grandi parole
fondamentali della filosofia.[2]
L'unità degli opposti è qui quella
opposizione che permette a ciascuna cosa, opponendosi alle altre, di giungere
alla propria identità, esse cioé consente l'individuazione del molteplice,
altrimenti confuso nell'indeterminato.
Operano qui due principi contrapposti:
un'armonia visibile che unifica gl'opposti nel loro divenire; e un'armonia
invisibile che ospita la totalità degli opposti.
Per Eraclito è solo dalla sua relazione
con il negativo che il positivo può manifestarsi in quanto tale.
E' grazie a questa concezione che è
possibile quella successiva di Parmenide per il quale l'affermazione del
positivo è, eo ipso, allontanamento, negazione, del negativo.
Il positivo è, adesso, l'einai, il
quale è pensiero:
... ... infatti lo stesso è pensare ed essere)
La verità di questo assunto basa sulla
connessione e perciò non disgiunzione dei due termini, come osserva Galimberti:
Alla presenza dell'essere si riduce il pensare, che non è
dell'uomo ma dell'essere. Il pensare è il presentarsi, il manifestarsi,
l'esporsi dell'essere. L'essere è verità in quanto presenza, manifestazione,
non nascondimento. In questo senso Parmenide dice: "... la stessa cosa è
pensare ed essere". Commentando questo frammento Jaspers scrive: "I
pensieri filosofici fondamentali, in cui pensiero ed essere sono la stessa cosa
e in questa unità sono stati pensati, da Parmenide in poi là dove furono
logicizzati, furono profanati." La profanazione consiste nell'isolamento
di un termine dall'altro. Responsabile di questo isolamento non è il lògos, che
pone il pensiero in unità con l'essere, ma la logica nel suo affermarsi come
solitudine del pensiero, nella lontananza del suo contenuto originario. Scrive
infatti Parmenide: "Queste cose, benché lontane, vedile col pensiero
saldamente presenti; infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione con
l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte con cura
sistematica, né concentrandolo in sé stesso". Commentando questo frammento
di Parmenide, Jaspers scrive che: "Nel nous dunque l'essere è presente
nella sua totalità. Perciò l'assente è compresente". (...) La
contrapposizione fra lògos e logica riproduce per Jaspers la contrapposizione
parmenidea tra verità e apparenza, alétheia e dòxa. In entrambi i casi si ha a
che fare con ciò che si manifesta, con questa differenza: che l'alétheia
manifesta l'unità del molteplice, la dòxa la sua dispersione. A presiedere
l'alétheia è il lògos che raccogliendo unifica, che pensa l'identico come
fondamento del diverso, l'essere come essere dell'ente. A presiedere la dòxa è
invece la logica che, generando il linguaggio, nomina diversamente lo stesso
producendo quella molteplicità che poi essa si incarica di unificare, secondo connessioni
che non traggono origine dall'essere ma dai caratteri che gli enti espongono
nel loro apparire.[3]
Perciò:
Porre dei nomi diversi per ciascuna cosa significa
disperdersi tra il molteplice, che appare nell'oblio dell' Uno che si sottrae
onde consentire l'apparire del diverso. L'errore dell'uomo consiste
nell'arrestarsi all'apparenza, nel non penetrarla, sì da proibirsi la scoperta
dell' Uno. L'apparenza del molteplice accade perchè l'Uno lo consente (...)
Anche l'apparenza é dunque inscritta nella necessità dell'essere; il suo
carattere fallace (...) nasce dall'isolamento dell'apparenza dall'essere che la
fa apparire. Assolutizzata nell'isolamento, l'apparenza attesta la dispersione
non unificata, attesta quindi il contrario della verità che, sottraendosi
all'attenzione dell'uomo, lascia via libera alla fallacità dell'opinare. Ogni
unificazione tentata dalla logica nell'oblio del lògos, vero unificatore, è
adikìa, ossia ingiusta connessione, perché, scrive Jaspers: "separa la
verità dell'apparenza dal fondamento del suo dispiegarsi". Aletheia è
dunque sapere l'apparenza come apparenza di un che d'altro. Dòxa è isolare
l'apparenza e assolutizzarla nel suo isolamento. Le due vie che così si
dischiudono sono rispettivamente quella del pensiero memorativo dell'essere e
quella del pensiero che si afferma nel suo oblio. Allora, scrive Jaspers:
"La totalità dell'essere è perduta; l'assente non è più presente, il
presente è separato dal passato e dal futuro. Col mondo dell'apparenza sorge il
mondo fallace delle opinioni, con le opinioni il mondo stesso
dell'apparenza." Alla base di questo capovolgimento è l'assentarsi
dell'essere dalla presenza, per cui presente è l'ente, separato da quel passato
e da quel futuro che, sulla traccia di Anassimandro, interpretiamo come il
termine a quo e il termine ad quem in cui è raccolta la vicenda dell'ente, in
quei limiti d'apparenza che l'essere gli concede.[4]
Con Parmenide la concezione dell'essere
rimane tuttavia ancora in quell'ambito di significanza proprio della filosofia
presocratica, meglio preplatonica, dove il pensiero è il manifestarsi
dell'essere, è - prima con Anassimandro, poi con Eraclito e infine con lo
stesso Parmenide - il pensiero dell'Uno che è àpeiron, lògos, einai e che come
tale tutto accoglie ed al tempo stesso disvela veritativamente nella misura in
cui il tutto accolto rimane connesso all'Uno e così salvato dalla dispersione
nel molteplice.
Con Platone invece l'ambito di
significanza dell'essere si sposta, e perciò ne varia l'orizzonte.
Il luogo in cui ciò accade è - tra
gl'altri secondo Heidegger - quello in cui Platone ci manifesta la più alta
comprensione dell'essere: il celeberrimo mito della caverna, nell'altrettanto
celebre libro settimo della Repubblica
che ritengo anzitutto per l'importanza, ma anche per la sua bellezza, valga la
pena di citare per intero:
"Ora" ripresi "riguardo alla cultura e alla
sua mancanza, immaginati la nostra condizione nel modo seguente. Pensa ad
uomini in una caverna sotterranea, dotata di un'apertura verso la luce che occupi
tutta la parete lunga. Essi vi stanno chiusi fin dall'infanzia, carichi di
catene al collo e alle gambe che li costringono a rimanere lì e a guardare
soltanto in avanti, poiché la catena intorno al collo impedisce loro di volgere
intorno il capo. In alto, sopra di loro, brilla lontana una fiamma; tra questa
e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale è stato costruito un
muretto, simile ai paraventi divisori al di sopre dei quali i saltimbanchi
mostrano al pubblico i loro prodigi."
"Sì, li vedo" disse.
"Ecco dunque lungo quel muretto degli uomini che
portano oggetti d'ogni sorta che sopravanzano il muretto, e immagini di uomini
e di animali in pietra, in legno e in fogge d'ogni tipo. Alcuni degli uomini
che le portano, com'è naturale, parlano, altri stanno zitti."
"Che strana visione! E che strani prigionieri!"
"Eppure sono simili a noi" risposi. "Pensi,
in primo luogo, che di se stessi e dei compagni abbiano visto qualcos'altro se
non le ombre proiettate dalla fiamma sulla parete della caverna di fronte a
loro?"
"Impossibile," rispose "se sono stati
costretti a rimanere per tutta la vita senza muovere il capo!"
"E non si trovano nella stessa situazione riguardo agli
oggetti che vengono fatti sfilare?"
"Certo!"
"Se dunque potessero parlare fra loro, non credi che
considererebbero reali le immagini che vedono?"
"Inevitabilmente."
"E se la parete opposta della caverna rimandasse
un'eco? Quando uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi
attribuirebbero quelle parole alla sua ombra?"
"Sì, per Zeus!" rispose.
"Allora per tali uomini la realtà consisterebbe
soltanto nelle ombre degli oggetti."
"E' assolutamente inevitabile" rispose.
"Pensa ora quale potrebbe essere per loro l'eventuale
liberazione dalle catene e dall'ignoranza. Un prigioniero che venisse liberato
e costretto ad alzarsi, a volgere il collo, a camminare e a levare gli occhi
verso la luce, soffrirebbe facendo tutto ciò, rimarrebbe abbagliato e sarebbe
incapace di mirare ciò di cui prima vedeva le ombre. E se gli si dicesse che
prima vedeva solo apparenze vane mentre ora può vedere megli, perché il suo
sguardo è più vicino all'essere e rivolto ad oggetti più reali; e se gli si
mostrasse ognuno degli oggetti che sfilano e lo si costringesse con alcune
domande a rispondere che cosa sia, tu come pensi che si comporterebbe? Non
credi che rimarrebbe imbarazzato e riterrebbe le cose che vedeva allora più
vere di quelle che gli vengono mostrate ora?"
"Sì, molto più vere" rispose.
"E se egli fosse costretto a guardare proprio verso la
luce, gli occhi non gli farebbero male, non cercherebbe di sottrarsi e di
fuggire verso ciò che può vedere, e non crederebbe che questo sia in realtà più
vero di ciò che gli si vuole mostrare?"
"E' così" rispose.
"E se qualcuno lo strappasse a forza di lì e lo
spingesse su per l'aspra e ripida salita, senza lasciarlo prima d'averlo
condotto alla luce del sole, il prigioniero non proverebbe dolore e rabbia di
venire così trascinato? E una volta giunto alla luce, non è forse vero che con
i suoi occhi accecati dai raggi del sole non riuscirebbe a contemplare neppure
uno degli oggetti che noi ora consideriamo reali?"
"Sì" rispose "per lo meno non subito."
"Per contemplare quelle realtà superiori dovrebbe
abituarsi, io credo. E innanzi tutto vedrebbe con la massima facilità le ombre,
poi le figure umane e tutte le altre riflesse nell'acqua, e da ultimo le
potrebbe vedere come sono in realtà. Poi sarebbe capace di guardare le
costellazioni e il cielo stesso di notte, alla luce delle stelle e della luna,
anziché di giorno quando sfolgora il sole."
"Come no!"
"Infine, io credo, contemplerebbe il sole, non la sua
immagine riflessa nell'acqua o in qualche altra superficie, ma nella sua realtà
e così com'è, nella sua propria sede."
"Per forza!" esclamò.
"E poi si metterebbe a riflettere che è il sole a
portare le stagioni e gli anni, a governare tutti i fenomeni del mondo
visibile, e che insomma in qualche misura esso è la vera causa di ciò che i
prigionieri vedevano."
"Ma è evidente" disse "che a questa
riflessione giungerebbe in un secondo tempo."
"E poi che farà? Memore della sua antica dimora e della
sapienza di laggiù e dei suoi vecchi compagni di prigionia, non credi che si
riterrebbe fortunato per il mutamento della sua sorte, e proverebbe pietà per
loro?"
"Sì, indubbiamente."
"Se quelli si attribuissero a vicenda onori, elogi e
premi per chi vedesse meglio il passaggio delle ombre e si ricordasse con
maggiore esattezza quali passano per prime e quali per ultime e quali insieme,
e in base a ciò indovinasse con suprema abilità quelle destinate a passare in
ogni momento: credi che egli proverebbe desiderio e invidia dei loro onori e
del loro potere, oppure si troverebbe nella condizione dell'eroe omerico e
vorrebbe ardentemente lavorare come salariato al servizio di un povero
contadino e patire qualsiasi sofferenza, piuttosto che condividere le opinioni
di costoro e vivere a modo loro?"
"Sì," rispose "credo che accetterebbe
qualsiasi destino pur di non vivere a quel modo."
"E pensa ancora una cosa:" dissi "se quell'uomo
scendesse a sedersi di nuovo al suo posto, non sentirebbe male agli occhi per
l'oscurità, venendo all'improvviso dal sole?"
"Certo" rispose.
"E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e
gareggiare con quegli eterni prigionieri prima che i suoi occhi, ancora
confusi, si fossero ripresi, e a riacquistare questa abitudine gli occorresse
un certo tempo, non credi che sembrerebbe ridicolo, e si direbbe di lui che
l'ascesa gli ha rovinato la vista e che non vale neppure la pena di affrontare
la scalata? E non verrebbe ucciso chi tentasse di liberare e far salire gli
altri, se solo potessero averlo fra le mani e ucciderlo?"
"Non c'è dubbio" rispose.
"Occorre dunque," dissi "caro Glaucone,
riferire tutta questa allegoria a quanto abbiamo detto prima. Paragona il mondo
visibile alla dimora in prigione, e la fiamma che vi risplende al sole; e non
deluderai la mia attesa considerando l'ascesa verso la contemplazione della
realtà superiore come l'ascesa dell'anima verso il mondo intelligibile. Questa
è la mia interpretazione, dato che vuoi conoscerla. Ma Dio solo sa se sia vera;
in ogni caso io la penso così: l'idea del bene rappresenta il limite estremo e
appena discernibile del mondo intelligibile. Quando si è compresa quella,
occorre dedurre che essa è causa per tutti di tutto ciò che è retto e bello:
nel mondo visibile ha generato la luce e il signore della luce, mentre nel
mondo intelligibile offre essa stessa la verità e l'intelligenza, e chi voglia
comportarsi saggiamente in privato e in pubblico deve contemplare questa
idea."
Heidegger vede in questo mito insieme
tanto la più alta comprensione della verità intesa come à-letheia - non
nascondimento o disvelamento - tanto la deviazione da essa[5].
L'essenza di questo mito è infatti
proprio quella del disvelamento della verità, del passaggio dall'oscurità alla
luce, al vedere - in greco: all'ìdein - dove la luce inizialmente acceca lo
sguardo nascondendo così quell'eidos che apparirà una volta che esso si sarà
assuefatto alla luce.
Il significato di quets'essenza appare
chiaramente nel confronto del prigioniero liberato che ritorna nella caverna
con i suoi compagni di sventura, costoro sono - sempre nell'interpretazione
heideggeriana - coloro per i quali la verità è la verità della ombre, ossia
coloro i quali hanno limitato l'infinita apertura della verità dell'essere ai
limiti circoscritti della verità dell'ente.
Ma, il conseguimento della verità
dell'essere impone un trascendimento di questi limiti e dunque un metterli in
discussione ed impone - al tempo stesso - il confronto con un rischio: quello
dell'accecamento.
Nessun ente infatti può garantire
l'apertura entro cui accade lo svelamento dell'essere, perchè l'essere pur
identificandosi con l'ente lo trascende e perciò la verità dell'essere è
garantita solo nella misura in cui non è identificata e perciò nella misura in
cui è distinta dalla verità dei contenuti determinati, cioé ontici.
Solo così infatti il pensiero dell'Uno
che è àpeiron, lògos, einai e che come tale tutto accoglie ed al tempo stesso
disvela veritativamente nella misura in cui il tutto accolto rimane connesso
all'Uno e così salvato dalla dispersione nel molteplice.
.Nella misura in cui invece la verità
dell'essere viene identificata con quella dell'ente ci si muove nella direzione
della diversificazione dall'essere, ossia, appunto, nella direzione della
dispersione nel molteplice, nella direzione della dimenticanza o obblìo - in
greco léthe - dell'essere, in direzione contraria a quella dell' à-letheia.
Solo il continuo trascendimento di
qualsiasi ente apre l'orizzonte del disvelamento dell'essere.
E' questo il senso dei passaggi che
dalle tenebre portano alla luce i quali sottraggono l'ente al suo
nascondimento, obblio (lethe) in cui sarebbe rimasto se non fosse trasceso
dall'infinita luminosità dell'essere e, appunto, lo disvelano (àletheia).
Ora il disvelarsi dell'ente è il suo
rapportarsi all'essere che avviene con una serie di trascendimenti successivi,
cioé progressivamente e perciò istituendo una gerarchia sino a giungere alla
luminosità piena del suo rapporto con l'essere alla luce del quale solo può
essere garantita la stessa verità dell'ente.
Le ombre della caverna infatti rinviano
alla luce del fuoco, questo alla luce e al calore del sole da cui esso - come
ogni cosa - è generato.
E' a questo punto che si trova -
secondo - Heidegger quella deviazione radicale platonica che determinerà
l'obblio dell'essere per tutta la successiva filosofia occidentale.
Il sole infatti non è posto nel mito
come avrebbe dovuto essere, ossia come simbolo o immagine dell'essere perciò
dell'essere che è il pensiero dell'Uno, che è àpeiron, lògos, einai e che come
tale tutto accoglie ed al tempo stesso disvela veritativamente nella misura in
cui il tutto accolto rimane connesso all'Uno e così salvato dalla dispersione
nel molteplice.
Il sole è qui invece simbolo o immagine
dell'Agathòn, che la filosofia ha interpretato come "Bene", ma qui -
osserva Heidegger - l'orizzonte non è morale, bensì metafisico e tò Agatòn
sgnifica qui in greco ciò che è atto a qualcosa e che rende atto a qualcosa,
ossia: "ciò che è buono a ..." quindi: ciò che è buono a far essere e
far apparire ogni cosa, il "Bene" è perciò inteso come causa, come
essere causa di tutto ciò che è, è l'ente sommo che presiede l'essere e
l'apparire di ogni cosa.
Ci sarebbe qui perciò - secondo
l'interpretazione di Heidegger - all'ultimo una radicale inversione: la verità
dell'essere è esplicitata come verità dell'ente, ci si muove allora sulla linea
della dispersione nel molteplice, ossia nella direzione dell'obblio dell'essere
e questa resterà nei secoli la direzione del movimento di tutta la tradizione
filosofica occidentale.
Inoltre, come in proposito osserva
Galimberti:
L'introduzione del rapporto causale muta la prospettiva
metafisica, nel senso che prima l'essere era inteso come lo stesso presentarsi
degli enti, come il loro manifestarsi nell'accadimento, ora invece l'essere è
inteso come un ente, l'Ente supremo, il cui valore (bonum) consiste nel causare
gli enti, che sono finché l'azione causante li mantiene e li conserva. Gli
enti, a questo punto, non sono più un libero accadere dell'essere, ma dipendono
da quel processo causale che fa capo a quell' Ente supremo espresso dall'idea
di Bene.[6]
Ed ancora:
Posto il Bene al vertice dell'universo eidetico (ossia
dell'iperuranio platonico o luogo delle idee), l'essenza delle idee, che del
Bene si nutrono, consisterà nel loro essere causa di ogni positività che si
rivela, cioè dell'essere dell'ente, per cui, come scrive Heidegger: "Per
tutte le cose e per la loro cosalità l'idea suprema è l'origine, cioè la causa.[7]
Ma soprattutto:
Nonostante la terminologia platonica conservi nel termine
eidos (idea) la radice
"id" da cui idein che esprime l'atto di "vedere", in
Platone il termine "idea" non fa più riferimento all'atto del
presentarsi (Anwesen)
dell'ente, ma al contenuto essenziale
(Wassein) che sta oltre ciò che
si presenta. Ciò che si mostra non è più considerato nel suo svelarsi, ma nel
suo riferirsi a ciò (l'idea)
che rende possibile e quindi causa la vista (idein) di ciò che si manifesta. Analogamente la verità non è più
lo sguardo su ciò che svelandosi non si nasconde (à-letheia), ma è il corretto riferimento (orthòtes) che si instaura tra ciò che
si percepisce e l'idea fatta cosa (Wassein).
In questo senso, Heidegger può dire: "La verità si pone sotto il giogo
dell'idea". Il giogo esige il corretto indirizzarsi dell'idein all'idea,
dalla cui adeguazione nasce un homoìosis o concordanza tra conoscente e
conosciuto. Si passa così dal concetto originario di verità come àletheia al
concetto di verità come homoìosis o
adaequatio. In forza di questo passaggio la verità cambia luogo: da
proprietà dell'essere diventa proprietà dell'uomo, in quanto l'attenzione non è
più rivolta all'originario manifestarsi (àletheia)
dell'ente, ma al corretto (orthòtes)
rapportarsi dell'uomo all'ente. Lungo questa via la verità viene a coincidere
con l'esattezza del vedere e del giudicare umano.[8]
Possiamo chiudere qui il confronto con
l'orizzonte nel quale si muovevano i presocratici ed al quale si rifanno in
parte anche Heidegger, Jaspers e Galimberti non senza alcune considerazioni.
Anzitutto va precisata
l'interpretazione del mito: la "caverna" è per Platone la corporeità
e dunque la materialità dell'uomo - ed è vero che questa è entità e dispersione
nella molteplicità - ma va altresì chiarito che l'orizzonte è qui quello
platonico per il quale il fine dell'uomo è quello della
"spiritualità" del "", dell'
"Uno", (unità dell'uomo con Dio, dell'uomo con la donna, etc.), e che
l'uomo può muovere ad esso e perciò conquistare il piano del presentificarsi o
manifestarsi dell'essere solo nella misura in cui uscendo dalla caverna (=
corporeità /materialità) e superandola, egli si apre alla dimensione dello
"Spirito" e si rapporta a Dio.
La positività del piano sul quale
Heidegger, Jaspers e Galimberti - come prima di loro i presocratici - si
muovono è senz'altro quella di aver messo in chiaro che l'uomo debba collocarsi
sull'orizzonte del manifestarsi, del presentarsi dell'ente e ciò trascendendo
la molteplicità, nella direzione dell'unificazione, nella direzione
dell'essere.
Questo tuttavia è - a mio giudizio -
insufficiente: non basta.
E' necessario altro: nel fare questo è
infatti necessario che tanto quell'orizzonte, quanto i singoli enti e l'uomo
stesso siano "illuminati" dal "Bene"; è questa la giusta e
geniale intuizione di Platone nel mito della caverna.
Va fatta poi una rettifica alla
interpretazione di Heidegger.
E' vero che "quoad nos" la
verità nel nuovo orizzonte così dischiuso si configuri come adaequatio
intellectus et rei, ma è altresì vero che questo intelletto è quello che è
chiamato a collocarsi nell'orizzonte di presentificazione, di manifestazione
degli enti, volgendosi ad essi nella direzione, trascendente la molteplicità,
perciò volgendosi nella direzione dell'unificazione, dell'essere, lasciandosi
in questo illuminare dal Bene; ora questo Bene che è Agape, mostrandosi perciò
"rivelandosi" all'uomo, non solo Si rivela all'uomo, ma rivela
all'uomo la sua vera immagine di uomo ed al tempo stesso quella degli enti:
dunque la verità non è la verità dell'uomo ma quella dell'Agape.
L'uomo può cogliere questo solo se ha
la disponibilità di aprirsi a tutto ciò ma per questo non solo deve volgersi
all'orizzonte di manifestazione o presentazione dell'ente volgendosi nella
direzione della trascendenza e dell'unificazione - in direzione cioé opposta a
quella della dispersione nel molteplice - ma al tempo stesso aprendosi alla
illuminazione rivelazione del Bene, l'uomo deve cioé disporsi nella
"sua" collocazione che è quella che gli compete: la dimensione
dell'ascolto.
Non è un caso che uno dei più insigni
teologi del Novecento Karl Rahner, guarda caso di scuola heideggeriana abbia
intitolato una delle sue opere più importanti proprio Uditori della Parola.
Da chi ha queste posizioni il volgersi
nella direzione opposta a quella dell'unificazione, o il prescindere da essa e
perciò il volgersi nella direzione della dispersione nel molteplice è sempre
stato condannato - al pari che, giustamente, da Heidegger, Jaspers e Galimberti
- come "secolarismo".
Nel nuovo orizzonte aperto da Platone -
che dunque non nega ma amplia il precedente - si muove, pur con diverse
varianti, proseguendone il cammino, il suo discepolo Aristotele, il quale si volge
alla dimostrazione della sostanza (perciò dell'ente) soprasensibile.
Aristotele dimostra l'esistenza della
sostanza soprasensibile partendo dalla costatazione dell'esistenza del divenire
e del movimento.
Il ragionamento è questo: le realtà
prime sono le sostanze[9], ora se tutte le sostanze fossero corruttibili, non vi
sarebbe nulla di incorruttibile, ci sono però delle realtà incorruttibili: il
movimento ed il tempo, che altro non è se non una determinazione del movimento,
infatti senza tempo non c'è movimento, l'eternità dell'uno implica quella
dell'altro.
Se però esiste un movimento eterno
allora deve esistere un Principio primo che ne sia la causa.
In conclusione: poichè c'è un movimento eterno, è necessario
che ci sia un Principio eterno che lo produca, ed è necessario che tale
Principio sia a) eterno, se eterno è ciò che esso causa, b) immobile, se la
causa assolutamente prima del mobile è l'immobile e c) atto puro, se è sempre
in atto il movimento che esso causa.[10]
Il modo in cui l' "Essere"
muove è lo stesso in cui l'intelligibile muove l'intelligenza o l'amato
l'amante: la sostanza soprasensibile, l' "Essere", "Dio",
muove attraendo, ossia a guisa di fine:
... la causalità del Motore Immobile è quindi, propriamente,
una causalità di tipo finale. Il mondo, che è costantemente attratto da Dio
come fine supremo, non ha avuto un cominciamento. Non c'è stato un momento in
cui c'era il caos (o il non cosmo), proprio perché, se così fosse, sarebbe
contraddetto il teorema della priorità dell'atto sulla potenza: prima sarebbe
il caos che è potenza, poi sarebbe il mondo, che è atto. E sarebbe anche
assurdo in quanto Dio, essendo eterno, dall'eternità doveva necessariamente
attrarre come oggetto d'amore l'universo, che dunque, da sempre ha dovuto
essere quale è.[11]
Ma allora, propriamente, cosa, o chi è
questo "Essere" o "Dio", o "atto puro"?
Aristotele risponde così:
Ora il pensiero che è pensiero per sè ha come oggetto ciò
che è di per sè più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha
per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L'intelligenza pensa se
stessa, cogliendosi comeintelligibile: infatti, essa diventa intelligibile
intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza e intelligibile coincidono.
L'intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l'intelligibile e la
sostanza[12],
ed è in atto quando li possiede. Pertanto più ancora che quella capacità, è
questo possesso ciò che di divino ha l'intelligenza; e l'attività contemplativa
è ciò che c'è di più piacevole e di più eccellente. Se dunque, in questa
piacevole condizione noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è
meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più
meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è
vita, perché l'attività dell'intelligenza è vita, ed Egli è appunto
quell'attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed
eterna. Diciamo infatti che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio
appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo dunque è Dio.[13]
L'essere è anche qui il sommo ente che
in quanto tale è l'ente causante, ma si va oltre, esso non è più il
"Bene", ma l'autocoscienza, la somma autocoscienza, dunque il
causante è un causante razionale.
L'essere è in quanto coscienza.
Dio è soggetto, il "Soggetto"
per eccellenza.
E' quanto giungerà a piena chiarezza e
maturazione - né poteva essere altrimenti - con gl'autori ispirati
religiosamente, più precisamente con quelli ispirati per fede in un Dio che è
autocoscienza, che è "Persona".
Definire Dio come "Soggetto",
è preconizzare, preannunciare un incontro tra "Filosofia" o
"Ratio" e "Fede", incontro che è eletto a portare a
compimento chi le ha entrambe, è l'incontro tra la cultura greca e la fede
giudaica.
I primi a compierla saranno
l'evangelista S. Giovanni e l'apostolo
S. Paolo.
Il Lògos greco è radicato da S.
Giovanni in quel compimento del giudaismo che è il cristianesimo con il celebre
inno che è il prologo del suo vangelo.
In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo
Questi era in principio presso Dio.
Tutto per mezzo di Lui fu fatto
e senza di Lui non fu fatto
assolutamente nulla di ciò che è stato fatto.
In lui era la vita
Significativamente S. Paolo porta
questa sintesi anzitutto idealmente, ma soprattutto concretamente nell'Areopago
di Atene.
Ateniesi, sotto ogni punto di vista io vi trovo sommamente
religiosi. Infatti, passando e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato
anche un altare su cui stava scritto: "Al Dio ignoto". Orbene, quello
che voi venerate senza conoscerlo, io vengo ad annunciarlo a voi...[15]
S. Tommaso d'Aquino è invece senz'altro
colui che porta questa sintesi al suo pieno compimento.
Egli dopo avere esperito in modo
"positivo", attraverso le cinque vie, l'esistenza di Dio prosegue a
questo punto attingendo alla Rivelazione, in particolare, secondo
l'insegnamento dei Padri della Chiesa ed in particolare S. Agostino, alla
manifestazione di Dio a Mosé nel roveto ardente, dove egli gli si rivela come
"sum qui sum".
Sono molto indicative le elucidazioni
proposte a riguardo da Edith Stein:
Desidero tentare ora di trattare l'ultima delle domande
sull' Essere da un punto di vista totalmente diverso: da quel nome con il quale
Dio ha chiamato se stesso: "Io sono chi Io sono". Mi sembra assai
significativo che qui non si dica "Io sono l'Essere" oppure "Io
sono l'essente", bensì "Io sono chi Io sono". Quasi non ci si
azzarda ad interpretare queste parole tramite altre. Se però è appropriata l'interpretazione
agostiniana, allora se ne può dedurre: Colui il cui nome è "Io sono",
è l' "Essere in Persona". Che il cosìddetto primo essente debba
essere persona è già evincibile da molte delle cose già dette: solo una Persona
può creare, ossia chiamare all'essere con la forza della propria volontà. E
d'altronde, l'agire di una causa prima non è concepibile se non come atto
libero, perché ogni agire che non fosse atto libero sarebbe causato e dunque
non atto primo. Rinviano ad una Persona anche l'ordine razionale e l'ordine ad
un fine del creato: solo un essere razionale può porre in atto un ordine
razionale; solo un essere conoscente e volente può porre fini e preordinarvi i
mezzi. Ragione e libertà sono i connotati essenziali della persona.[16]
Tutto ciò però implica delle
considerazioni, che sebbene non sia questo il luogo ove svilupparle, vanno
almeno brevemente accennate.
Affermare che Dio sia soggetto è
implicare, si voglia direttamente o indirettamente un rapporto, una
relazionalità tra il Soggetto infinito, eterno, da un lato ed il soggetto
finito dall'altro.
La metafisica allora implica una
religiosità, ossia un modus di questa relazione ed una mistica, ovvero una
concrezione sul piano individuale di questa relazione.
San Tommaso d'Aquino identifica il
modus di questa relazione in quello indicato dalla religione cristiana e la sua
concrezione in quello indicato dalla mistica della stessa.
Personalmente ritengo che una mente
come quella di un Platone o di un Aristotele non possano non essersi già rese
conto del fatto che una metafisica implichi una religiosità, ossia un modus di
questa relazione ed una mistica, ovvero una concrezione sul piano individuale
di questa relazione.
Ritengo che sia proprio questo ciò che
non faceva parte della tradizione scritta che è stata tramandata e ci è
pervenuta, ma di quella tradizione che era partecipata solo agli iniziati,
della quale sappiamo per certo che sia esistita, ma della quale non ci è
pervenuto nulla.
Dagli scritti pervenutici, tanto da
quelli di Parmenide, quanto quelli di Platone ed Aristotele - a ciò bastano già
i passi citati nel presente scritto -, possiamo inferire che si trattasse di
una religiosità razionalistica e razionaleggiante.
Da questo ed insieme anche dal processo
intentato a Socrate, riportato dal suo allievo Platone, e dalle accuse
riportate anche contro gli stessi Platone ed Aristotele suo discepolo, si può
inferire che essa fosse una religiosità, già nei suoi scritti divulgativi,
quelli tramandatici, in aperto contrasto con la religiosità ufficiale della
società dell'epoca e sovversiva nei suoi confronti.
Questa implicazione viene fuori in
tutta la sua portata in S. Tommaso d'Aquino.
Egli è tra i grandi pensatori
metafisici quello in cui appare chiaro che definire l' "Essere" come
pensiero di pensiero, come - con le sue parole - "actus purus", come
- platonicamente - causa dell' essere di ogni cosa, e perciò creatore, è
implicare un rapporto tra creatura e cretore.
E' un rapporto nel quale la creatura
procede dalle cose create muovendo per analogia verso il suo Creatore, del
quale, procedendo - oggi diremmo "scientificamente" - tramite le
celebri "cinque vie" (1. primum movens quod in nullo moveatur; 2.
causa efficiente prima incausata; 3. generazione e corruzione di tutti gl'enti
suppone un ente primo necessario per sé; 4. i gradi di perfezione suppongono un
ente primo perfetto; 5. tutti gl'enti e la natura sono ordinati ad un fine e
dunque suppongono un principio intelligente che le ordini a tale fine) essa può
accertare solo la semplice esistenza.
La creatura - qui l'uomo - è, com'egli
lo definisce, "l'essere che per sua natura non è e non può essere
fondamento a sé stesso (solo Dio lo è)" e perciò non è in grado, nella sua
esistenza terrena di non conoscere di Dio altro se non ch'egli esista.
Parte perciò necessariamente da Dio il
suo rivelarsi all'uomo, il quale insieme rivela all'uomo la verità dell'uomo
stesso.
L'uomo dunque può andare oltre la
semplice conoscenza dell'esistenza di Dio con la fede e la rivelazione.
S. Tommaso è il grande metafisico in
cui è apertamente tematizzata l'implicazione dell'affermazione che l'
"Esssere" sia pensiero di pensiero, o, come diremmo oggi, Soggetto:
dire che Dio sia Soggetto è implicare un rapporto tra "Il Soggetto"
ed il soggetto umano.
E' implicare il piano religioso e
quello mistico.
L'aquinate, al tempo stesso delimita e
separa questo piano da quello scientifico, filosofico, metafisico: su
quest'ultimo, tramite le cinque vie l'uomo può arrivare a conoscere l'esistenza
di Dio; sul primo l'uomo può rapportarsi in modo più completo a Dio in misura
dei termini della relazione e della propria fede.
Qui, nel primo articolo della prima
"Quaestio" del De Veritate,
S. Tommaso affronta il discorso sull' "Essere" sul piano metafisico.
Il discorso sull' "Essere" -
di contro a quello sulla determinazione che si collocava sul piano ontico - si
pone sul piano ontologico.
E' il piano che consegue all'essere
preso nella sua universalità, cioé trascendentalità:
E' il piano sul quale incontriamo i
cosìddetti trascendentali: res, unum,
aliquid, bonum, verum.
L'identificazione / distinzione di
questi con l'essere costituisce il cosìddetto piano trascendentale proprio,
quello con l'ente, il piano trascendentale derivato: l'ente è uno, vero, buono,
in quanto e nella misura in cui partecipa all'essere.
Le vie del piano ontologico sono
anch'esse due:
...questo modo può essere duplice: o in quanto segue ogni
ente in sé, o in quanto segue un ente in ordine ad un altro ente.[18]
L'ente considerato in sé, la prima via,
può esprimersi positivamente o negativamente.
L'espressione positiva, o assoluta
dell'ente considerato in sé, è la "res",
infatti
Ciò che esprime in maniera assolutamente affermativa
l'essere è la sua essenza (determinazione, partecipazione), ossia il modo di
essere.[19]
L'ente, sintesi di essere e
determinazione - riferisce, rapporta principalmente all'essere, "ens
dicitur ab esse", ed all'atto di essere "ens sumitur ab actu
essendi", la sua manifestazione o affermazione positiva è la res o
quidditas o essenza, "nomen rei exprimit quidditatem vel essentiam
entis".
Propriamente il piano della
determinazione dell'ente è il piano ontico, qui però la res è considerata quale
epressione positiva assoluta e perciò trascendentale dell'ente, è, quella qui
intesa, la considerazione trascendentale della onticità dell'ente.
L'espressione negativa dell'ente
considerato in sé è l'uno (unum),
cioè l'indivisione:
... la negazione poi che consegue a ogni ente in modo
assoluto è l'indivisione, la quale viene espressa dal nome "uno":
infatti l'uno non è altro che l'ente indiviso.[20]
L'uno come affermazione assoluta è la
negazione della opposizione assoluta dell'essere, il non essere, esso è la negazione
della negazione, l'esclusione dell'opposizione e quindi l'affermazione
dell'essere come posizione assoluta.
L'uno come affermazione assoluta
dell'essere è anche negazione della possibilità, perchè il possibile in quanto
tale non è.
Allora, come negazione della negazione,
l'uno è l'unità dell'essere, è identità.
Questa esplicitazione nell'unità si traduce derivatamente
sul piano dell'ente: l'ente è ente per l'essere e, allo stesso modo, è
necessariamente uno per l'essere: l'unità dell'ente è l'unità del suo essere;
in quanto e nella misura in cui è, l'ente, ogni ente, è indiviso, non opposto,
indivisibile, identico.[21]
La seconda via del piano ontologico, è
quella dell'ente preso per ordine ad altro.
Anch'essa è duplice, infatti l'ente
considerato in relazione ad altro è o diviso, divergente, o conveniente,
convergente.
Come diviso, divergente, esso è
aliquid, ossia aliud quid, è qualcosa di altro, cioè un altro qualcosa:
Se invece il modo dell'ente è preso per ordine ad altro,
allora o si ha la divisione di una cosa dall'altra e ciò è espresso dal
nome "qualcosa" (aliquid): si
dice infatti aliquid nel senso di aliud
quid, cioè di "un altro qualcosa", per cui come l'ente si dice uno in
quanto è indiviso in sé, così si dice qualcosa in quanto è diviso dagli
altri...[22]
Sul piano ontologico proprio, il piano
dell'essere, non si dà alterità, in quanto l'altro dall'essere, il non essere,
è negato dall'uno, negazione della negazione; con una semplificazione rozza: su
questo piano, anche ciò che è diverso, è, ed in quanto tale è essere, per cui
non c'è diversità.
L' aliquid compare sul piano ontologico
derivato quale considerazione ontologica della determinazione dell'ente,
parafrasando Tommaso
... per cui come l'ente si dice "uno" in quanto è
indiviso in sè, così si dice "qualcosa" in quanto è diviso dagli
altri...
con Molinaro:
... l'ente è indiviso in sé in quanto è ed è diviso da ogni
altro in quanto determinato. Ogni determinazione, poiché implica divisione,
opposizione rispetto a un'altra, implica sempre un'altra determinazione.
Su questo piano, quello ontologico
derivato, ogni determinazione esclude ogni altra determinazione, come dirà
Spinoza: "omnis determinatio, negatio".
La negazione inerisce la dterminazione,
l'affermazione inerisce l'essere, perciò ogni determinazione in quanto
affermazione assoluta è ed è essere, in quanto determinazione è negazione
determinata.
L'ente considerato per ordine ad altro
è anche conveniente, convergente: "oppure si ha la convenienza
(convergenza) di un ente con un altro.
Ora, perché tutto ciò che è in quanto
è, ossia tutte le cose in quanto sono, possano convergere, convenire, è
necessario qualcosa in cui questa convergenza possa avvenire, dunque qualcosa
che sia conveniente con ogni ente, questo qualcosa in cui questa convergenza
possa avvenire è l'anima.
L'anima, ossia il quid in cui tutte le
cose che sono possono convergere, è, a sua volta, essere, sia perchè l'altro
dall'essere è il non - essere (ma l'anima non può essere un "non
essere"), e si avrebbe il contraddittorio che l'essere converge nel
non - essere, sia perché l'anima, perché
tutto possa convergere in essa, deve poter essa stessa convenire con tutto, e,
perciò, di nuovo, essere anch'essa essere.
Tra l'anima e l'essere perciò non c'è
separazione, né opposizione, c'è una distinzione, la quale è interna
all'essere, e perciò autodistinzione.
Nell'anima allora - che è il quid in
cui tutte le cose possono convergere e che può essa stessa convenire con tutto
- si compie la relazione dell'essere sia ai trascendetali, sia all'ente
determinato.
Si ha allora un piano ontologico
proprio sul quale si relazionano l'essere ed i trascendentali, ed un piano
ontologico derivato sul quale si relazionano l'essere e l'ente determinato.
Per quanto concerne il primo - il
trascendentale proprio -, Tommaso osserva: "Nell'anima però vi è una forza
cognitiva ed una appetitiva" essa cioé ha due forze o potenze: quella
conoscitiva o intellettiva, e quella appetitiva o volitiva, essa perciò può
compiere la sua relazionalità con l'essere tanto con l'una quanto con l'altra
di queste due potenze.
Se la relazionalità in quanto
identificazione con l'essere è compiuta tramite la potenza intellettiva si ha
la verità che è adeguazione dell'essere con l'intelligenza, la conformità
dell'essere con l'intelligenza.
Se invece essa è compiuta tramite la
potenza volitiva, si ha la bontà, che è conformità della volontà con l'essere.
La direzione delle due relazionalità è
opposta, a costituire due emicicli: la prima è dall'essere all'intelligenza, la
verità è la presenza dell'essere all'intelligenza, l'essere si conforma
all'intelligenza divenendogli interiore; la seconda è dalla volontà all'essere
in quanto la volontà si compie nell'essere, è perciò una realizzazione:
Essere -------------> Intelligenza
Interiorizzazione
Verità = presenza dell' Essere
all'intelligenza
Volontà -------------> Essere
Realizzazione
Bontà = compimento della volontà
nell'Essere
Si spiega così come, in quanto
trascendentali, la verità e la bontà abbiano la stessa estensione dell'essere:
l'essere, tutto l'essere, è verità e tutta la verità è essere; l'essere è bontà
e la bontà è essere.
Ma, se tutto l'essere è verità e bontà,
allora anche l'intelligenza e la volontà, in quanto essere sono verità e bontà.
Ora, l'intelligenza implica
l'intelligibile, ne è necessariamente correlata, similmente la volontà il
volibile.
L'intelligibile ed il volibile sono
anch'essi essere, come i loro correlati, perciò la loro stessa correlazione -
intelligenza / intelligibile, volontà / volibile - dice che l'essere è
intelligenza ed intelligibile, volontà e volibile, in sé e per sé.
La correlazione intelligenza /
intelligibile è necessariamente intelligenza in atto e intelligibile in atto.
L'inseità e la perseità sono perciò
attualità, ossia intellezione, ma l'intellezione dell'in sé e per sé è
autocoscienza.
Similente per la correlazione volontà /
volibile, l'essere è attualmente ciò che vuole e ciò che è voluto, perciò
volizione in atto, autopossesso, realizzazione di sé con sé.
Per quanto concerne il piano ontologico
derivato, è qui che abbiamo a questo punto il rapporto con l'ente determinato,
anch'esso duplice: 1). da una parte l'ente la cui determinazione è
l'intelligenza e dall'altra l'ente la cui determinazione è l'intelligibilità.
2). da una parte l'ente la cui determinazione è la volontà e dall'altra quello
la cui determinazione è la volibilità.
Consideriamo anzitutto il primo, il
rapporto tra l'ente la cui determinazione è l'intelligenza e quello la cui
determinazione è l'intelligibilità.
L'intelligenza, per definizione
intelligenza dell'ente, è la verità logica, la conoscenza, è l'adeguazione
cosciente dell'ente con l'intelligenza, la quale si esprime nel giudizio: x è
z:
... la verità intesa come conoscenza dell'adeguazione tra il
conoscente ed il conosciuto si realizza nel giudizio: solo in esso infatti la
mente riflette sui contenuti dell'apprensione per affermare la loro
corrispondenza alla realtà.[23]
Le parole celeberrime di Tommaso sono:
... ogni conoscenza si compie attraverso l'assimilazione del
conoscente alla cosa conosciuta, così che l'assimilazione è detta causa della
conoscenza, (...) : la prima comparazione dell'ente all'intelletto è dunque che
l'ente concordi con l'intelletto, la quale concordanza è detta
"adeguazione della cosa e dell'intelletto", e in ciò formalmente si
compie la definizione di "vero". Questo è dunque ciò che il vero
aggiunge sopra l'ente: la conformità, cioè l'adeguazione, della cosa e
dell'intelletto, alla quale conformità, come si è detto, segue la conoscenza
della cosa: così dunque l'entità della cosa precede la nozione della verità, ma
la conoscenza è un certo effetto della verità.[24]
L'intelletto, perciò, si adegua alla
cosa, all'ente determinato come intelligibile.
L'intelligibilità dell'ente è la verità
ontica, essa è il contenuto dell'intelligenza, la verità ontica è ciò su cui si
fonda quella ontologica.
L'adeguazione è tra due termini,
l'intelligenza e l'intelligibile, il pensiero e la realtà:
Soltanto in Dio l'adeguazione tra pensiero e realtà raggiunge
il vertice di una totale identità. L'intelligenza di Dio è assolutamente vera,
al punto da identificarsi con il suo essere (veritas mentis); allo stesso modo,
l'essere divino è massimamente vero (veritas rei) perchè è identico alla sua
intelligenza. Dunque in Dio non c'è distinzione tra verità della mente e verità
della cosa, tra intelligenza ed intelligibilità.[25]
Nell'intelligenza umana la verità è
invece un'adeguazione tra due istanze, l'intelligenza e la cosa o
l'intelligibile.
E' la verità ontica - come si è detto -
quella che fonda quella ontologica, allora siccome i due termini
dell'adeguazione non sono identici, è il primo, l'intelligenza, che deve
adeguarsi al secondo, la cosa.
La cosa dunque "misura" (non
quantitativamente) l'intelligenza, o, con altri termini, l'intelligenza è
misurata dalla cosa.
Ciò è dovuto al fatto che qui tanto
l'intelligenza (che non sempre è intelligenza in atto) quanto l'intelligibile
(che non sempre è termine dell'intelligenza) contengono un elemento di
potenzialità da cui origina la distinzione, all'interno della verità logica tra
intelligenza ed intellezione, come, al tempo stesso, la distinzione tra verità
logica e la verità ontica.
Questo momento di potenzialità è
superato nella intellezione dove intelligenza ed intelligibile sono in atto.
E' la ripetizione di quanto nell'anima
già accadeva a livello della sensazione:
E' possibile infatti che chi possiede l'udito non oda, così
come l'oggetto sonoro non sempre risuona. Quando però ciò che è capace di udire
ode in atto, e ciò che è capace di suonare suona, allora l'udito in atto ed il
suono in atto si producono simultaneamente.[26]
Perciò come è necessario nella
sensazione che percepiente e percepito siano simultaneamente in atto, così è
necessario nella intellezione che siano simultaneamente in atto intelligenza ed
intelligibile.
Quando ciò accade nell'intellezione,
si attua una perfetta identità tra verità ontica, tra misura
misurata (l'intelligenza) e misura misurante (l'intelligibilità), identità in
cui cadono tanto il momento "misurata" quanto il momento
"misurante" e resta la "misura" come verità.[27]
Da quanto si è detto si può concludere
circa la verità con Tommaso che "In base a ciò si trovano tre definizioni
del vero o della verità":
1). "Verum est id quod est"
(è la definizione che l'aquinate trae dai Soliloqui di S.Agostino).
2). La verità è la verità
dell'adaequatio, ossia del giudizio.
3). "Verum est declarativum et
manifestativum esse".
Ma allora, se la verità è ciò che è
("verum est id quod est"), sul piano ontologico proprio essa è la
verità dell'essere e l'essere che è verità, e questa è vera, sul piano
ontologico derivato, la verità è la verità cosciente dell'adaequatio, e pure
questa è vera, infine, la verità è ciò che è dichiarativo e manifestativo
dell'essere, e questa è anche vera, dove sono la falsità e l'errore?
La falsità e l'errore esistono solo sul
piano ontologico derivato, cioé come errore e falso del particolare, più
specificatamente si può rispondere con Sanguineti:
L'intelligenza umana si costituisce nella verità quando
giudica le cose secondo il loro essere, e cade in errore quando risulta una
discordanza tra ciò che pensa e ciò che è.[28]
Per quanto concerne invece la
considerazione, sul piano ontologico derivato, della bontà, ossia del rapporto
tra l'ente la cui determinazione è la volontà e quello la cui determinazione è
la volibilità, essa è sostanzialmente analoga a quella precedente con alcune
eccezioni derivanti da quanto già detto.
All'ente la cui determinazione è la
volontà corrisponde la bontà intenzionale, a quello la cui determinazione è la
volibilità la bontà ontica; la prima è l'intenzione, la seconda il suo
compimento.
C'è una differenza di fondo con la
considerazione della verità: lì si andava dall'essere all'intelligenza,
l'intelligibile era interiorizzato; qui si va dalla volontà all'essere, la
volontà si rende presente all'ente che lo attrae e così si realizza.
Anche qui c'è il momento di
potenzialità, volontà e volibile non sempre sono in atto, lo divengono nella
volizione, la quale, anche qui, attua la perfetta identità tra bontà ontica e
bontà intenzionale.
Anche
qui sul piano ontologico proprio non c'è il male, perché l'essere è bene
ed il bene è essere, il male esiste sul piano ontologico derivato in quanto
privazione del bene dovuto, cioé privazione di una determinazione dovuta
all'ente che è buono.
Per Tommaso cioé
Il male, come aveva insegnato Agostino, erudito a sua volta
da Plotino, non è una realtà positiva, è una privazione, è la mancanza di
qualcosa che dovrebbe esserci, come la cecità è la mancanza di qualcosa
nell'occhio; e può essere o mancanza di un elemento naturale o mancanza di
ordine al fine proprio liberamente voluta da una creatura razionale. Questo
secondo è la colpa, il male morale (malum culpae) - che è il male più grave -
il primo è il malum poenae il dolore in tutte le sue forme.[29]
[1] Anassimandro,
fr. B 1
[2] Jaspers,
Die grossen Philosophen.
[3] Galimberti
Umberto, Il tramonto dell'occidente, 20 L 'einai di Parmenide.
[4] Galimberti
Umberto, Il tramonto dell'occidente, 20 L 'einai di Parmenide.
[6] Galimberti,
Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[7] Galimberti,
Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[8] Galimberti,
Il tramonto dell'occidente, Platone e il giogo dell'idea.
[9] I caratteri definitori di "sostanza"
per lo stagirita sono: a) ciò che non inerisce ad altro e non si predica di
altro; b) ciò che può sussistere per sé; c) ciò che è alcunché di determinato;
d) ciò che ha intrinseca unità; e) ciò che è atto o in atto. Ora la materia ha
solo il primo carattere ed è perciò sostanza solo in senso debole. La forma e
il sinolo hanno invece tutti i caratteri, dal punto di vista empirico è
sostanza l'individuo concreto (ossia il sinolo), dal punto di vista metafisico
sostanza prima è la forma.
[10] Reale
Giovanni, Introduzione a Aristotele, pag. 65
[11] ivi, pag. 66
[12] Si ricordi che Aristotele
intende la sostanza eminentemente nel significato di forma, ossia di essenza.
[13] Aristotele, Metafisica, XII, 7,
1072 b 18 - 30.
[14] Gv. 1, 1-4
[15] At. 17,
22-23
[16] Stein Edith,
Endliches und Ewiges Sein; Der Name Gottes: "Ich Bin", pag.
317 (traduzione mia)
[17] De Veritate, Q I, a1.
[18] De Veritate, Q I, a1.
[20] De Veritate, Q I, a1.
[21] Molinaro,
Metafisica, pag. 93
[22] De Veritate, Q I, a1.
[23] Sanguineti,
Logica e gnoseologia, pag. 265
[24] Tommaso,
De Veritate, QI, a1.
[25] Sanguineti,
Logica e gnoseologia, pag. 267
[26] Aristotele,
De Anima, libro III, 429
a
[27] Molinaro
Aniceto, Metafisica, pag. 103
[28] Sanguineti
J.J. Logica e gnoseologia, pag. 267
[29] Vanni
Rovighi Sofia, Introduzione a S. Tommaso, pag. 78
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