De Veritate esposizione introduttiva


Premessa
Il percorso seguito è - analizzati (anche con riferimento tanto a Parmenide quanto anche a Platone ed Aristotele), i due termini, essere e determinazione, la cui sintesi è l'ente - quello seguito dallo stesso S.Tommaso, che è naturalmente scaturente da questi due termini: il piano ontico o della determinazione categoriale dell'ente e quello ontologico o trascendentale, sia proprio che derivato.
Al tutto è stato preposto:
un cenno storico biografico culturale;
un cenno sulla "disputa" ai tempi di S.Tommaso;
il testo del primo articolo della prima "Quaestio".
Alla trattazione è stato posposto uno schema riassuntivo.

1.1. Cenno storico - biografico - culturale.
Nel 1252 S.Tommaso fu mandato a Parigi dal suo maestro S.Alberto Magno quando il "Maestro" dell'Ordine chiese a quest'ultimo un giovane baccelliere da avviare alla carriera accademica.
Qui, come da incarico, legge e commenta la Bibbia (1252 - 1256) e poi le Sentenze di Pier Lombardo (1254 - 1256).
Nel '56 Tommaso è "Magister", ossia professore ordinario, presso la stessa università, incarico che ricoprirà sino al 1259.
Sono anni fecondi per la produttività dell'aquinate, egli infatti comporrà, sotto forma di "Quaestio" il Commento alla Trinità di Boezio, le Questiones disputate de veritate, le Quaestiones quodlibetales e - secondo diversi critici - parte della Summa contra gentiles.
Non si tratta di un periodo tranquillo, gl'ordini mendicanti infatti, e per la loro presenza, e per il loro successo negl'ambienti universitari, sono fortemente avversati anche dallo stesso clero secolare.
L'università dell'epoca non era - come oggi - un'istituzione ma una comunità di docenti e studenti, S.Tommaso è componente di questa comunità ma al tempo stesso legato con voto di ubbidienza al proprio Ordine (è il pomo della discordia impugnato dal clero secolare) e tiene lezione nel convento domenicano di rue St. Jacques.
Nel '55 il capo del clero secolare, Guglielmo di St. Amour, aveva attaccato violentemente l'insegnamento universitario da parte di religiosi degl'ordini mendicanti con la De periculis novissimorum temporum cui rispose lo stesso S.Tommaso con la Contra impugnantes Dei cultum et religionem.
Dovette intervenire il Papa in persona, all'epoca Alessandro IV, con la bolla Quasi lignum vitae, in cui si espresse a favore dei frati.
L'opposizione di Guglielmo di St. Amour e dei secolari resta fortissima e S.Tommaso, insieme a S.Bonaventura, è ammesso come magister solo alla fine del 1256 su ordine del Papa.

1.2. La "disputa".
Nel 1256, con la nomina a magister al compito di "leggere" ossia commentare, S.Tommaso aggiunge quello del "disputare" cioé discutere e risolvere problemi di particolare interesse o attualità.
E' la forma tipica dell'insegnamento universitario medioevale.
Vi erano due forme di disputa:
a) Le quodlibetali, tenute due volte l'anno, in avvento e quaresima, cui partecipavano anche persone estranee all'università, ognuna delle quali poteva porre liberamente problemi su qualsiasi tema.
b) Quelle ordinarie, cui partecipavano solo gli studenti, i baccellieri ed i magistri, e che erano tenute regolarmente durante l'anno.
La disputa avveniva tra opponentes e respondentes (generalmente un baccelliere), mentre il "Magister" dava la determinatio, cioè la risposta definitiva.
E' a questo secondo genere che appartiene il De Veritate, la cui stesura è probabilmente stata effettuata non al momento stesso della disputa, ma in un momento successivo, da S.Tommaso, nello scriptorium[1].
L'opera comprende 29 Quaestio suddivise in complessivamente 253 articoli, di cui solo la prima tratta della Verità, le restanti prime venti hanno un riferimento alla conoscenza divina ed umana, le questioni XXI - XXIX hanno a tema la volontà ed il bene.

1.3. Quaestio prima, De Veritate.
La prima "quaestio" del De Veritate comprende dodici articoli - qui sarà affrontato solo il primo - e svolge il tema della critica della conoscenza, all'epoca ancora non esistente come disciplina filosofica a sé stante, la sua trattazione non è dunque sistematica.
L'impostazione, sebbene il pensiero di S.Tommaso sia già chiaramente delineato, è più vicina ad Avicenna di quanto non sarà nelle opere successive.

1.4. Il testo dell'articolo 1.
Come nelle proposizioni  dimostrabili bisogna operare la riduzione a qualche principio per sé noto all'intelletto, così [ bisogna fare ] quando si ricerca che cos'è una certa cosa, altrimenti in entrambi i casi si andrebbe all'infinito, e così verrebbero meno del tutto la scienza e la conoscenza delle cose; ma ciò che anzitutto l'intelletto concepisce come la cosa più nota di tutte e in cui risolve tutti i concetti è l'ente (ens), come dice Avicnna al principio della sua Metafisica; per cui è necessario che tutti gl'altri concetti dell'intelletto siano ottenuti per aggiunta all'ente. Ora, all'ente non si può aggiungere qualcosa come estraneo, al modo in cui la differenza si aggiunge al genere o l'accidente al soggetto, perché ogni natura è essenzialmente ente, per cui anche il Filosofo dimostra che l'ente non può essere un genere; ma si dice che alcune cose aggiungono [ qualcosa ] all'ente in quanto esprimono un modo dello stesso ente che non è espresso dal nome di ente, il che accade in una duplice maniera. Innanzitutto quando il modo espresso è un qualche modo speciale dell'ente[2]; vi sono infatti diversi gradi di entità secondo i quali si prendono i diversi modi di essere, e secondo questi modi si prendono i diversi generi delle cose: la sostanza infatti non aggiunge all'ente qualche differenza che designi qualche natura sopraggiunta all'ente, ma col nome di sostanza si esprime un certo speciale modo di essere, cioè l'ente per sé, e così per gli altri generi.
La seconda maniera si ha quando il modo espresso è un modo generale che consegue a ogni ente[3], e questo modo può essere duplice: o in quanto segue ogni ente in sé, o in quanto segue un ente in ordine a un altro ente. Nel primo caso qualcosa viene espresso nell'ente o affermativamente o negativamente; ma non si trova qualcosa che sia detto affermativamente in modo assoluto a riguardo di ogni ente all'infuori della sua essenza, secondo la quale si dice che esso è, e così viene imposto il nome di "cosa" (res), il quale differisce da "ente", secondo Avicenna, per il fatto che "ente" viene preso dall'atto di essere mentre "cosa" esprime la quiddità o l'essenza dell'ente; la negazione poi che consegue a ogni ente in modo assoluto è l'indivisione, la quale viene espressa dal nome "uno" (unum): infatti l'uno non è altro che l'ente indiviso. Se invece il modo dell'ente è preso per ordine ad altro, allora o si ha la divisione di una cosa dall'altra e ciò è espresso dal nome "qualcosa" (aliquid): si dice infatti aliquid nel senso di aliud quid, cioè di "un altro qualcosa", per cui come l'ente si dice "uno" in quanto è indiviso in sé, così si dice "qualcosa" in quanto è diviso dagli altri; oppure si ha la convenienza di un ente con un altro, e ciò non può aversi se non si prende qualcosa che per natura sua conviene con ogni ente: e ciò è l'anima la quale "in certo qual modo è tutte le cose", come è detto nel De anima; ma nell'anima vi è la potenza conoscitiva e quella appetitiva: e così la convenienza dell'ente con l'appetito è espressa dalla parola "buono" (bonum), per cui al principio dell'Etica è detto che "il bene è ciò che tutte le cose appetiscono", mentre la convenienza dell'ente con l'intelletto viene espressa dal nome "vero" (verum).
Ma ogni conoscenza si compie attraverso l'assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta, così che l'assimilazione è detta causa della conoscenza, come la vista, per il fatto di essere disposta secondo la specie del colore, conosce il colore: la prima comparazione dell'ente all'intelletto è dunque che l'ente concordi con l'intelletto, la quale concordanza è detta "adeguazione della cosa e dell'intelletto", e in ciò formalmente si compie la definizione di "vero". Questo è dunque ciò che il vero aggiunge sopra l'ente: la conformità, cioè l'adeguazione, della cosa e dell'intelletto, alla quale conformità, come si è detto, segue la conoscenza della cosa: così dunque l'entità della cosa precede la nozione della verità, ma la conoscenza è un certo effetto della verità. In base a ciò si trovano tre definizioni del vero o della verità. La prima riguarda ciò che precede la nozione di verità e in cui il vero si fonda, e così Agostino dice che "il vero è ciò che è", e Avicenna che "la verità di qualsiasi cosa è la proprietà del suo essere che le è stato assegnato", e alcuni che "il vero è l'indivisione dell'essere e di ciò che è". Il secondo tipo di definizione è dato in base a ciò in cui formalmente si compie la definizione di vero, e così Ysaac [Israeli] dice che"la verità è l'adeguazione della cosa e dell'intelletto", e Anselmo che  "la verità è la rettitudine percettibile della sola mente" - infatti questa rettitudine si dice secondo una certa quale adeguazione -; e il Filosofo dice che definiamo il vero quando diciamo che è ciò che è o che non è ciò che non è. Il terzo tipo di definizione è dato in base all'effetto conseguente, e così Ilario dice che "il vero è dichiarativo e manifestativo dell'essere", e Agostino che "la verità è ciò mediante cui si mostra ciò che è" e ancora che "la verità è ciò in base a cui giudichiamo degli inferiori".

2. L'ente sintesi di essere e determinazione.
L'articolo citato è - come visto - il luogo celeberrimo dove appare la definizione metafisica della verità come adaequatio intellectus et rei.
L'esordio, quasi altrettanto famoso è quello con cui si parte proprio dalla metafisica di Avicenna:
... ma ciò che anzitutto l'intelletto concepisce come la cosa più nota di tutte e in cui risolve tutti i concetti è l'ente (ens), come dice Avicnna al principio della sua Metafisica;[4]

Esso è del tutto sovrapponibile con il prologo del precedente De ente:
... l' ente e l'essenza sono le cose concepite per prime dall'intelletto, come dice Avicenna  al principio della sua Metafisica.

Qui è posto l'oggetto primo della metafisica, il concetto in cui tutto si risolve: l'ente in quanto ente, ciò cui compete l'essere, ciò il cui atto è l'essere.
Il concetto complesso di ente, ( qualcosa che possiede l'essere) è la prima idea della intelligenza umana, non innata, ma procedente dall'esperienza nella quale l'uomo scorge l'essere appena conosce intellettualmente.
Non si tratta di un'idea esplicitamente astratta (che appare più tardi, come risultato di una maggiore elaborazione) bensì del fatto che qualunque cosa sia oggetto di qualche apprensione, viene primariamente accolta sub ratione entis.[5]

Si conosce ciò che è: questo è, o esiste: l'ente è sintesi di essere e determinazione.
"Questo è" ed è conoscibile in quanto è, nella misura in cui è ed è in atto: "unumquodque conoscibile est in quantum est in actu."[6]
Dall'oggetto materiale della metafisica "la datità immediata di tutto ciò che è presente"[7] è rilevata la forma dell'essere o della realtà, "questo è": l'ente, l'idea, il concetto, il cui contenuto è l'essere.
Questo concetto è "quasi notissimum et in quod conceptiones omnes resolvit",ossia esso è primum notum et per se notum, cioè evidenza prima e principio di ogni altra e conosciuto per se stesso.
E' fondamentale notare che essere e determinazione, i due costitutivi dell'ente, non sono due enti autonomi, nè due parti dell'ente, i due elementi - essere e determinazione - sono due principi costitutivi e correlativi:
Questa soluzione rende intelligibile il fatto che l'ente presenta qualificazioni irriducibili ed indissociabili: è interamente essere ed è interamente determinazione, è interamente uno ed è interamente diverso, è interamente indiviso (non opposto) ed interamente diviso (opposto). Infatti si tratta di considerare l'essere e la determinazione come elementi della sintesi, che è l'ente, e, quindi, al suo interno. In questo contesto essi vengono compresi come principi, componenti elementi, di cui ciascuno è con, mediante e per l'altro; costitutivi, in quanto la loro presenza nell'ente costituisce l'ente: la loro sintesi è l'ente; correlativi, in quanto la loro distinzione è una unità essenziale, in cui c'è l'uno perchè e in quanto c'è l'altro: stanno e cadono insieme; e infine principi costitutivi e correlativi trascendentali, nel senso che essi sono implicati l'uno nell'altro nella loro totalità; trascendentale traduce l' "interamente": l'ente è tutto intero essere e tutto intero determinazione; nell'ente tutto ciò che è l'essenza consiste nell'essere determinazione, modo di essere; e tutto ciò che è l'essere consiste nell'essere in quella determinazione ed in quel modo; fra l'essere e la determinazione vige una relazione tipica e che è detta trascendentale, perchè nella sintesi dell'ente la determinazione è la stessa relazione o riferimento all'essere e l'essere è la stessa relazione alla determinazione.[8]

Per quanto concerne l' essere, primo termine della sintesi di essere e determinazione che è l'ente, ci aiuta a comprendere un passo di un testo altrettanto famoso, il De anima di Aristotele:
L'atto del sensibile e del senso sono il medesimo ed unico atto, ma la loro essenza non è la stessa.[9]

La medicina e le scienze moderne ci confermano questo passo e, ripetendo lo stagirita, ci spiegano che ciò che per primo la mente conosce dai sensi è proprio questo atto, questa nozione prima in cui "tutto è" ed è conosciuto indistintamente come essere.
In questa conoscenza prima non c'è  distinzione tra percepiente e percepito, tra soggetto ed oggetto (le due diverse essenze cui fa riferimento Aristotele): l' essere trascende tutto.
La distinzione soggetto / oggetto, come ogni altra distinzione successiva è interna all'essere ed operata dall'intelletto.
E' in accordo con quest'affermazione della scienza moderna anche il testo di S.Tommaso:
Ora, all'ente non si può aggiungere qualcosa come estraneo... ma si dice che alcune cose aggiungono [ qualcosa ] all'ente in quanto esprimono un modo dello stesso ente...

Nelle stesse riga S.Tommaso specifica però anche, ed è questo pure in accordo con le moderne acquisizioni scientifiche, che:
Ora, all'ente non si può aggiungere qualcosa come estraneo, al modo in cui la differenza si aggiunge al genere o l'accidente al soggetto...

Ossia che questo primum notum è indefinibile, infatti ogni definizione (es. l' uomo è un animale razionale) comprende un genere (animale) ed una differenza specifica (razionale) la quale può essere indipendente ed aggiunta "dal di fuori" al genere, ma l' essere non è un genere e nulla gli può essere aggiunto "dal di fuori".
La conoscenza prima, dunque, è l'essere di tutto, ossia che tutto è ed è conoscibile in quanto è, cioè: al di fuori dell'essere non vi è nulla, l' essere è intrascendibile.
Tutte le cose perciò sono unite indistintamente dall'essere e nell' essere, l'essere si rapporta al principio unificatore del reale (distinguendosene al tempo stesso), come osserva Aniceto Molinaro: "... l'idea di essere è una nozione unificatrice."[10]
E' il senso dell' "Uno" platonico nel Parmenide[11] ed è utile soffermarci brevemente - tornando alle origini del problema - per chiarire il rapporto tra l' essere, l'uno (principio di unificazione) e la determinazione che qui compare e che è il secondo termine della sintesi di essere e determinazione che è l'ente.
Platone si rifà ai pitagorici, il cui pensiero ricaviamo in sintesi:
... costoro sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati dei medesimi. Essi pongono, poi, come elementi costitutivi del numero il pari ed il dispari; di questi il primo è illimitato, il secondo limitato. L' Uno deriva da entrambi questi elementi, perchè è, insieme, pari e dispari.[12]

E' con questo concetto dell' Uno come principio costitutivo del reale  e al tempo stesso come primo termine, o di nuovo, principio, della coppia enentiomerica reciprocamente implicantisi Uno - Molti, e perciò al tempo stesso uno e diade, che Platone riesce a superare l'empasse parmenidea[13]: l' Uno del "Grande Vecchio" della filosofia occidentale, l'Uno in sè non partecipa dell'essere, non è Uno e non è conoscibile.
E' la conclusione, che è un rigetto, della prima tesi del "Parmenide": "Non se ne ha quindi nome, nè definizione, nè scienza alcuna, nè sensazione, nè opinione."[14]
Il ragionamento di Platone è questo: se l'Uno in sè, cioè l'Uno considerato come principio a sè stante, "a prescindere" dall'essere non può esistere, allora deve esistere l' Uno come Uno che è (la seconda tesi è appunto "se l'Uno é), ossia come principio che partecipa o ha l'essere.
L'Essere è perciò una realtà assolutamente prima rispetto ad ogni cosa, è primario anche rispetto all' Uno, e l'Uno può esistere solo in quanto partecipante all'essere, cioè avente l'essere.
Se l'Uno è, è possibile che sia non partecipando dell'Essere?
Non è possibile.[15]

Ora quando si dice che tutto ciò che è, in quanto è, è essere ed è uno, si relaziona l'Essere e l'Uno.
Se è vero che l'Essere è uno e che l'Uno è essere, è altrettanto vero che l'Essere non è l'Uno e che l'Uno non è l'Essere, cioè che l'Uno è altro dall'Essere, si è perciò introdotto il principio di divisione o alterità nel momento stesso in cui si è introdotto quello di unificazione:
... se una cosa è l'Essere, un'altra l'Uno, l'Uno non è diverso dall'Essere perchè è Uno, nè l'Essere è altro dall'Uno perchè è Essere, ma sono diversi tra loro per la Diversità e l'Alterità.
Senza dubbio.
Perciò la Diversità non è uguale nè all'Uno nè all'Essere.[16]

L'Uno è primo termine della diade pitagorica Uno - Molti, introdurlo è porre anche il secondo termine della diade.
Si è così dimostrato, è il fatto fondamentale, che il principio di unificazione, e perciò anche di determinazione è necessariamente anch'esso essere, che è, in quanto partecipa dell' essere.
E' quanto consente di dare conto in maniera non contraddittoria della uni molteplicità del reale.
La determinazione è interna all'essere, perciò il determinato è determinato in quanto partecipa all'essere: ha l'essere in questo determinato modo.
Esso dunque non si oppone in maniera assoluta all' Essere, ma in modo relativo ad ogni altro determinato in quanto partecipa all'essere nel suo modo proprio: questa pietra è così, è determinata in questo modo, partecipa all'essere in questo modo che la caratterizza e distingue, e perciò oppone di opposizione relativa ad ogni altra cosa.
La posizione di Aristotele è qui diversa:
Ora, l'Essere e l'Uno sono una medesima cosa ed una realtà unica, in quanto si implicano reciprocamente l'un l'altro (così come si implicano, reciprocamente, principio e causa), anche se non sono esprimibili con una unica nozione. (Ma non cambierebbe nulla anche se noi li considerassimo identici altresì nella nozione: chè, anzi, risulterebbe di vantaggio.) Infatti, significano la medesima cosa le espressioni "uomo" e "un uomo", e così pure "uomo" e "è uomo"; e non si dice nulla di diverso raddoppiando l'espressione "un uomo" in quest'altra "è un uomo" (è evidente che l'Essere dell'uomo non si separa dalla unità dell'uomo nè nella generazione nè nella corruzione; e lo stesso vale anche per l'Uno). E' evidente, di conseguenza, che l'aggiunta, in questi casi, non fa che ripetere la stessa cosa, e che l'Uno non è affatto qualcosa di diverso dall'Essere.[17]

Lo stagirita dunque identifica l'Essere con l'Ente che è sintesi di essere e determinazione - come si vede dagl'esempi che adduce: uomo infatti non è Essere, ma essere determinato - e considera gli elementi della sintesi autoimplicantisi ed inscindibili.
S.Tommaso qui si rifà a Platone, per l'aquinate infatti la partecipazione è tema centrale in quanto dire che ogni cosa è determinata, ha l'essere per partecipazione, rinvia ad un essere che ha, necessariamente, l'essere per sè, che è per sè: Dio.
Essa rinvia al concetto di creazione, in quanto rinvia ad un essere che è essere per sè, che è soggetto dell'essere, che è Ipsum Esse Subsistens, da cui per partecipazione, ogni cosa ha l'essere, per cui "l' essere è l'effetto proprio di Dio in ogni cosa."[18]
La prima cosa che Dio crea è l' "esse commune", la forma realissima di tutto ciò che è, esso non è al di fuori delle cose esistenti, ma è conosciuto a partire dagli enti, è quello che con espressione moderna si dice essere trascendentale.
L' esse commune è l'essere in cui tutto ciò che è, è accomunato dall'essere, ogni cosa che è, è perchè partecipa ad esso.
La partecipazione del singolo ente all'essere è ciò che ne fa la sua determinazione propria: è il suo determinarsi nel proprio modo che lo differenzia da ogni altro, questa sua determinazione o partecipazione è la sua essenza.
Perciò l'ente "è ciò la cui essenza è la partecipazione all'essere"[19].
Siamo di nuovo al punto: l'ente è sintesi di essere e determinazione.
S.Tommaso continua:
Ora, all'ente non si può aggiungere qualcosa come estraneo... ma si dice che alcune cose aggiungono [ qualcosa ] all'ente in quanto esprimono un modo dello stesso ente...

Questi "modi" sono due proprio perchè l'ente è sintesi di essere e determinazione, in sintonia con la disamina appena fatta, dei due termini di questa sintesi.
Ma, allora derivano due piani, il piano dell'essere o piano ontologico ed il piano della determinazione o piano ontico.
Si è visto, la prima cosa che Dio crea è l'esse commune, perciò il piano ontologico ha la primarietà, l'uomo conosce però per primo il piano ontico:
... dobbiamo dedurre la cognizione delle cose semplici da quelle composte e dalle successive ricavare quelle antecedenti...[20]



[1] E' l'ipotesi più sostenibile, in quanto quella secondo cui nella disputa fosse discusso un solo articolo non è conciliabile con i programmi d'insegnamento universitari, l'altra, che fosse discussa un'intera Quaestio non è conciliabile con i ben 17 articoli della Q 17.
[2]  E' il piano ontico, ossia della determinazione categoriale dell'ente, categorie supreme sono: sostanza (per sé), accidente (per altro), analogia, potenza e atto.
[3]  E' il piano ontologico, sul quale incontriamo i trascendentali  (res, unum, aliquid, bonum, verum): l'identificazione / distinzione di questi con l'essere costituisce il cosiddetto piano trascendentale proprio, quella con l'ente, il piano trascendentale derivato: l'ente è uno, vero, buono, nella misura in cui partecipa all'essere. Le vie del piano ontologico sono due: 1) ciò che consegue all'ente considerato in sé: espressione affermativa dell'ente = Res; espressione negativa dell'ente = unum; 2) ciò che consegue all'ente considerato in relazione ad altro: come divergente = Aliquid; come convergente: nell'anima: a) secondo l'intelletto = verum; b) secondo la volontà = bonum.
[4] De veritate, QI, art 1
[5] Juan Josè Sanguineti, Logica e gnoseologia, 1988
[6] S. Th. I, q 5, a 2 c
[7] Aniceto Molinaro, Metafisica, pag. 68
[8] Molinaro Aniceto, Metafisica, pag. 153
[9] De Anima, libro III, 425 b, 25
[10] Molinaro A., Metafisica, pag. 71
[11] Cfr. Platone, Parmenide, Rusconi 1994, Terza tesi, se l'uno è che cosa ne consegue per gl'altri dall'uno considerati in rapporto all'uno, su cui il Migliori osserva: "nella realtà operano due processi, uno di divisione e uno di unificazione che rinviano a due principi primi ..." ivi, introduzione, pag. 18
[12] Aristotele, Metafisica, libro I, 986, 15 ed Bompiani, 2000, pag. 29
[13] Si ricorda che Platone interpreta il pensiero di Parmenide assolutizzandolo e perciò distorcendolo.
[14] Platone, Parmenide, 142 a, Rusconi, pag. 121
[15] Platone, Parmenide, seconda tesi, 142 b, pag. 123
[16] Platone, Parmenide, 143 b, pag. 127
[17] Aristotele, Metafisica, libro IV, 1003 b, Bompiani, pag. 133 - 135
[18] Tommaso, De Veritate, 22, 2, 2m
[19] Molinaro Aniceto, Metafisica, pag. 81
[20] Tommaso, De ente, Prologo.

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