giovedì 6 settembre 2018

Il caso Galilei tra atomismo ed eliocentrismo.


Il “caso Redondi” nel "Galileo Galilei e la cultura scientifica nell‘età della controriforma" di Michele CAMEROTA, ovvero il “Caso Galilei” alla luce delle due più importanti opere sulla controversia.
Mi è stato chiesto di confrontarmi con il testo di Michele Camerota su Galileo pubblicato nel 2004. L’ho fatto. Ricevuto il volume tra le mani mi sono trovato confermato in ciò che era già assai più di una intuizione: ho davanti un testo tecnico specialistico accurato e ben fatto, frutto di anni di studio e di ricerca. Ricomincio a disaminare il volume e sono colpito dall’anno di pubblicazione, il 2004. E’ esattamente  venti anni dopo, come passa il tempo, la pubblicazione dell’ultimo libro che mi è capitato di leggere su Galileo. Era il 1984, ed il libro fece scalpore, e con esso l’autore, Pietro Redondi, per la scoperta cui in esso faceva riferimento, di un documento dimostrante che l’accusa contro Galileo fosse di atomismo e non di copernicanesimo. Tutta la questione galileiana avrebbe dunque dovuta essere rivista.
Camerota cosa ne dice? Ci sono delle novità? Egli si occupa direttamente della vicenda in modo serio e completo nelle pagine 390 (ultima riga) e successive del suo volume: "Dobbiamo ad un controverso (ma innovativo e ricco di suggestioni) libro di Pietro Redondi la scoperta di uno sconosciuto documento, che ha decisamente aperto nuovi scenari sulla questione della ricezione della teoria atomistica galileiana". 
I “fatti” nuovi ci sono, in particolare ce n’è uno che mi rallegra personalmente in quanto “Ex Alunno” dei Gesuiti: “Più recentemente, tuttavia, un accurato esame - ad opera di Sergio Pagano - ha decisamente escluso che la scrittura (dell’atto di accusa contro Galileo, ndr.) possa essere addebitata alla penna del Grassi. L’analisi della filigrana delle carte smentisce anzi la stessa possibilità di una provenienza da area gesuitica della supposta denuncia, facendo emergere lo stemma di un arcivescovo o cardinale. Approfondendo gli esiti del lavoro di Pagano, Rafael Martinez è giunto ad individuare nell’effigie riprodotta nelle filigrane dei fogli di G3 lo stemma del cardinale Tiberio Muti, vescovo di Viterbo dal 1611 al 1636, un personaggio che Galileo conosceva bene e alla cui presenza, nel corso del soggiorno romano del 1615 - 1616 aveva discusso del problema della possibilità di vita sulla Luna. Per quanto il documento non possa essere ascritto alla persona del Muti (in ragione della evidente differenza con la calligrafia del cardinale), nondimeno, resta certamente la possibilità di identificare G3 come proveniente da una cerchia vicina al cardinale o alla sua famiglia, che avrebbe facilmente avuto a disposizione la carta con la 


filigrana del cardinale. Lo studio di Martinez sul possibile autore di G3 è legato al recente ritrovamento di un’altra importante scrittura. Si è infatti scoperto che il volume EE della serie Acta et Documenta dell’Archivio della congregazione per la Dottrina della Fede contiene, proprio nella carta precedente il testo originariamente pubblicato da Redondi, un pronunciamento (vergato in latino) concernente anch’esso la questione del rapporto tra l’atomismo e la dottrina eucaristica. Più precisamente il documento costituisce un giudizio circa le idee espresse nel cap. 48 de Il Saggiatore (una parte riguardante le qualità dei corpi, cioè l’atomismo, appunto, ed in cui vengono ravvisati sei errori)”.
Mi scuso della lunghezza della citazione, la quale però mi pare giustificata dal fatto che essa consente una presa diretta con la qualità e l’approfondimento tecnico scientifico del lavoro di Camerota. C’è qui un fatto nuovo importante: padre Orazio Grassi non è l'autore della denuncia segreta contro Galileo all'Inquisizione per atomismo. Su Padre Grassi Camerota riporta un ulteriore fatto: Le implicazioni delle tesi galileiane non sfuggirono al padre Grassi, il quale replicando a Il Saggiatore, nella sua Ratio ponderum Librae et Simbellae, pubblicata (ancora sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi) a Parigi nel 1626, ne evidenziò l’eterodossia dal punto di vista dottrinario. Grassi rilevava che la concezione galileiana della materia e della sensazione sembrava confliggere ineluttabilmente con un importante precetto della Chiesa di Roma: il miracolo eucaristico: “Nell’ostia è comunemente affermato, le specie sensibili, il calore, il sapore e così via, permangono: Galileo invece dice che il calore e il sapore, fuori da colui che li avverte, e pertanto anche nell’ostia, sono dei puri nomi, ossia essi non sono niente. Si dovrà dunque inferire da ciò che Galileo dice, che il calore e il sapore non sussistono nell’ostia. L’animo prova orrore solo a pensarlo.” Orazio Grassi ha dunque risposto pubblicamente a Galileo. L’affermazione di Camerota che “… la tesi di Redondi risulti non condivisibile in quanto non adeguatamente sostenuta da riscontri documentari” è senz’altro vera - stante i nuovi riscontri - per quanto concerne padre Orazio Grassi. Personalmente ritengo che sarebbe stato dovere tecnico scientifico di Redondi, anziché, basandosi sull’apparente identità di grafia (che peraltro è somigliantissima e avrebbe ingannato chiunque non fosse un grafologo esperto) imbastire teoremi e supposizioni, provvedere o far provvedere ad un esame tecnico accurato, a cominciare da quello calligrafico ed a quello della carta, filigrana compresa. Già qui tuttavia comincia a stagliarsi la questione di fondo: atomismo o copernicanesimo, o entrambi, o più uno o l’altro. Camerota riassume la tesi di Redondi come segue:
“Nel 1983, Redondi pubblicava un volume, Galilei eretico, in 


cui proponeva una nuova interpretazione delle ragioni della condanna dello scienziato pisano, avvenuta nel 1633. Il processo intentato a Galileo con l’accusa di aver indebitamente difeso la concezione copernicana, avrebbe, in realtà, mirato ad evitare che l’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi venisse coinvolto in un procedimento assai più grave e rischioso, basato sull’accusa di eresia eucaristica.” Subito dopo Camerota ci dà la sua valutazione sul “caso” Redondi cui è necessario fare riferimento: “Benchè la tesi di Redondi risulti non condivisibile in quanto non adeguatamente sostenuta da riscontri documentari, la sua ricognizione degli ambienti in cui si dipanano le vicende galileiane (in particolare di quello della corte romana) e la disamina delle conseguenze sul piano dell’ortodossia dottrinale provocate dalla adesione alle tesi atomistiche rappresentano un importante contributo in direzione di una più adeguata comprensione dei modi in cui le idee scientifiche si innestarono nell’ambito del dibattito culturale, politico e religioso della prima metà del Seicento.” Camerota sostiene dunque sostanzialmente:
a) che è provato che non sia stato padre Orazio Grassi il denunziante segreto di Galileo e neppure i Gesuiti; b) che non 
esistano riscontri documentari adeguati a sostenere lo “spostamento” dell’accusa nel processo a Galileo da atomismo a copernicanesimo;
c) che il documento G3 è autentico, anche se non redatto da padre Grassi, e che dunque l’atomismo abbia avuto un ruolo nella vicenda galileiana al suo tempo;
d) che l’atomismo non abbia però avuto alcun ruolo nelle vicende giudiziarie di Galileo;
e) che fatto precipuo sia e resti comunque il copernicanesimo, e che solo questo concerna le vicende giudiziarie. E conclude quindi: La rottura del paradigma ileomorfico aristotelico - tomista a vantaggio di una innovativa (benchè radicata nella filosofia degli antichi) soluzione, quella del crepuscolarismo, importava dunque, cospicui problemi di allineamento e accordo con il corpus dei pronunciamenti tridentini e, in particolare, con le deliberazioni concernenti il dogma eucaristico. Da questo punto di vista, alcuni lettori de Il Saggiatore (tra cuipadre Grassi) rilevarono con prontezza l’eterodossia delle tesi corpuscolari galileiane, non mancando di segnalarle come (sono parole del documento EE 291) assurde e contrarie alla fede. Queste accuse non ebbero niente a che vedere ed in nessun modo influirono sulle vicende del successivo processo celebrato contro Galileo; nondimeno il loro affiorare rende testimonianza delle 


preoccupazioni che le dottrine galileiane suscitarono nell’ambito della cultura dominante e del grado di allerta con cui alcuni zelanti difensori della vera filosofia (per usare l’espressione del documento EE291) lessero le opere dello scienziato pisano. Dunque atomismo sì, ed è vero che l’atomismo abbia svolto un ruolo cospicuo nel dibattito dell’epoca, è vero che c’è stata anche una denuncia in tal senso, ma è vero che il fatto preponderante sia comunque stato il copernicanesimo e solo questo abbia avuto un ruolo significativo nel processo.
E’ questa la tesi di fondo di Camerota. Per correttezza, riporto in estrema sintesi anche la tesi di fondo sul cui sviluppo è basato il libro di Redondi anche perché essa mette in luce una intuizione davvero geniale del grande scienziato pisano: sostenere il copernicanesimo è mettere il sole al centro, ma questo per Galilei - secondo Redondi - è mettere al centro la luce, cioè i corpuscoli, in quanto la luce per Galileo aveva natura corpuscolare, ed il dualismo onda particella sarà poi dimostrato definitivamente dal De Broglie. Galilei avrebbe cioè avuto una visione unitaria della natura e atomismo e copernicanesimo sarebbero stati soltanto modi diversi di manifestarsi della realtà. E’ l’immagine di Galileo che condivido personalmente, e che a mio giudizio, ne manifesta l’autentico valore e la vera grandezza. Il confronto Camerota - Redondi è invece sostanzialmente confronto tra due tesi di fondo atomismo e copernicanesimo, e questo appare evidente già se, nel libro di Camerota, ci si confronta con la disamina che egli fa de Il Saggiatore. Egli infatti disamina il testo di Galileo mettendo in primo piano il copernicanesimo ed in secondo l’atomismo e sulla base di questa concezione attacca Redondi:
Stante la prudenza con cui Galileo richiamava la soluzione copernicana, Redondi ritiene che il Saggiatore non potesse essere in alcun modo accusato di sostenere la tesi geocinetica. In realtà, come già Grassi aveva posto in rilievo nella sua Libra astronomica del 1619, la teoria cometaria galileiana (sia nel Discorso delle comete che nel Saggiatore), implicava di
necessità il moto terrestre, quale obbligata conseguenza dell’assunzione di una traiettoria rettilinea delle comete. Redondi, comunque, non prende affatto in considerazione tale aspetto e giudica, pertanto, implausibile che la denuncia nei confronti de Il Saggiatore concernesse il copernicanesimo. Egli opina invece che la dottrina del moto menzionata dal Guiducci vada intesa nel senso del movimento degli atomi, aspetto su cui, come abbiamo visto, 


lo stesso Grassi, nella sua Ratio dell’anno successivo (1626), aveva modo di attirare l’attenzione, sottolineandone la discordanza con i pronunciamenti della Chiesa in materia eucaristica. Si tratta di un punto sul quale è bene semplificare un po’ meno e confrontarsi meglio con Redondi. Al momento in cui scrivo non ho la possibilità di recarmi in biblioteca - la più vicina è a Palermo - a procurarmi una copia del libro di Redondi e debbo perciò rifarmi alla mia che, siccome all’epoca ero in Germania, è in lingua tedesca, il riferimento delle pagine sarà dunque alla edizione in lingua tedesca e la traduzione mia. Redondi dedica intere pagine agli inizi del secondo capitolo “Comete presagio di sventura” a sostenere che tutto Il Saggiatore - compreso l’atomismo - è stato scritto a sostegno del copernicanesimo ma che siccome nel 1616 il Cardinale Bellarmino aveva imposto a Galileo di non sostenere più apertamente le tesi copernicane, allo scienziato pisano erano rimaste due sole vie a sostegno delle proprie tesi: 1) il sostegno indiretto attraverso ad es. l’atomismo; 2) combattere le tesi anticopernicane. Cito alcuni passi: Galilei iniziò la polemica su posizione, moto e natura delle comete contro Tycho Brahe ed i suoi epigoni con armi del tutto impari. Aveva tuttavia una motivazione nascosta: impedire che le comete potessero essere addotte per confutare il copernicanesimo. Così Galileo si gettò nella discussione senza peraltro aver fatto di persona alcuna osservazione né alcun calcolo; Un corpo celeste che (apparentemente) non si muoveva su di una orbita, costituiva infatti una minaccia al sistema copernicano o perlomeno la base per una ipotesi imprevista e pericolosa. … Galilei concepì una risposta geniale: propose di negare semplicemente la realtà fisica delle comete. Si tratterebbe non già di corpi celesti ma di semplici apparizioni luminose come l’arcobaleno o i riflessi del sole nel mare al tramonto…Convinto della bassa posizionatura delle comete badando bene di collocarle lontano dal cielo di Copernico, Galileo propose una teoria delle comete che nient’altro era che una rivisitazione in chiave ottica della vecchia teoria di Aristotele sulle comete. C’era però una differenza fondamentale: Aristotele supponeva un fuoco originato dal moto di vapori terrestri, Galileo sosteneva che esse fossero semplicemente un riflesso di questi vapori, senza alcun effetto termico dovuto al loro moto. Con queste concezioni tratte dalle tesi di Aristotele sulle meteore si sarebbe potuto - così sembrava - prevenire il copernicanesimo dalle tesi di Tycho Brahe. Come si vede, Il Saggiatore non arricchisce l’astronomia di nuove osservazioni o tesi originali, ma soltanto di geniali polemiche. Esse erano tanto più geniali in quanto, paradossalmente il loro fine non era di fondare una nuova teoria sulle comete, ma quello di 


inficiare tramite una logica provocatoria e non contraddicibile la certezza concettuale dell’avversario, ossia Tycho Brahe ed i suoi accoliti anticopernicani e privarli delle loro certezze esperienziali costruite rigorosamente sull’osservazione diretta. Redondi perciò mostra come Il Saggiatore sostenga sì la tesi geocinetica o copernicana ed in maniera assai forte, anche se non direttamente ma nell’unico modo possibile a Galileo, ossia indirettamente e trasversalmente.
Vero è invece, come nota Camerota, che riguardo al documento del Guiducci, Redondi - partendo dalla propria tesi che al contrario di quella di Camerota pone la sua centralità sull’atomismo - dice che la dottrina del moto andrebbe riferita non ai corpi ma ai corpuscoli, ovvero intesa non in senso copernicano ma atomistico. Conviene a questo punto tornare direttamente a Il Saggiatore per vedere come, una volta spiegate le comete come fenomeno ottico dovuto ai vapori e quindi utilizzati i corpuscoli, Galileo esponga la propria concezione atomistica nel cap. 48, perché ad essa si rifà un documento che Camerota giudica tanto importante quanto misconosciuto e che proprio per questo vogliamo poi disaminare.
In questo celebre capitolo Galileo sostiene che la realtà vera, ossia quella dei corpuscoli, o del mondo corpuscolare, sia del tutto diversa da quella in cui i nostri sensi ci hanno abituato a vedere il mondo, cerco di stralciarne le parti più importanti: Restami ora, che conforme alla promessa fatta di sopra a V.S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione ‘Il moto è causa di calore’, mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa bisogno di fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o 


muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc, per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; Tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. E’ questo l’importante e controverso nucleo della concezione corpuscolare di Galileo, peraltro del tutto confermato dalla fisica moderna e contemporanea: a livello corpuscolare, cioè atomico esistono soltanto realtà quantitative, oggi diciamo massa ed energia, Galileo diceva sostanza, relazione, spazio, tempo, moto. Le qualità, i cosìddetti accidenti, sono solo un frutto della nostra percezione sensoriale e perciò non esistono in sé, non esistono nei corpuscoli. L’aria, o il fuoco, ad es. sono caldi perché i loro corpuscoli hanno moto più rapido per cui interagendo con le ns. terminazioni tattili danno il senso di calore, questo è però in noi e non nei corpuscoli. Detto altrimenti: a livello corpuscolare le qualità o accidenti sono ridotte a quantità, perciò, propriamente, non esistono qualità o accidenti, ma solo quantità. Le qualità o accidenti esistono solo nel soggetto quali sue percezioni, perciò sono solo dei nomi con cui si designano le percezioni soggettive, ma non sono realtà, le realtà sono solo quantitative. Quest’ultimo è un concetto fondamentale perché su di esso e a partire da esso Galileo costruisce tutta la sua fisica e da esso origina tutta la fisica moderna: la realtà e perciò la verità è quantitativa e perciò quantitativamente misurabile, il qualitativo è soggettivo e comunque vero solo nella misura in cui è quantizabile. Oggi si tratta - al pari del copernicanesimo - di realtà scontate per tutti, all’epoca si trattava di cose in netto contrasto con l’ordinario modo di vedere la realtà, e questo anche in ambienti colti.
Diverse delle principali obbiezioni che questa concezione suscitava nella mentalità dell’epoca sono contenute nel documento siglato EE 291, appartenente alla stessa serie Acta et Documenta del G3 e situato nella pagina immediatamente precedente a questo, che il Camerota indica come inestricabilmente connesso al G3 e riferito alle tesi galileiane 


e redatto dal gesuita ungherese Melchior Inchofer. Le riporto tutte in sintesi, tranne quelle concernenti l’Eucaristia che riporto per esteso: 1) nega la distinzione in qualità prime e seconde;
2) “Erra dicendo che non è possibile separare concettualmente dalle sostanze corporee gli accidenti che le modificano, come la quantità e ciò che consegue alla quantità. Una tale opinione è del tutto contraria alla fede, come si vede nell’esempio dell’Eucaristia, in cui la quantità non soltanto si distingue realmente dalla sua sostanza, ma esiste anche separata da essa.”3) Erra quando dice che le qualità sono solo nomi; 4) erra nel chiamare azioni le sensazioni nel corpo dell’animale; 5) erra nel sostenere che l’odore ed il sapore abbiano la stessa origine del tatto; 6) erra nel sostenere ad es. il calore del ferro è dovuto a sensazione;
7) “Dall’opinione di questo autore si ricava direttamente che gli accidenti non rimangono ella sostanza dell’Eucaristia senza la sostanza del pane. Ciò è evidente poiché essi agiscono nell’organo della sensazione per risoluzione in parti minime, le quali, essendo eterogenee rispetto alla quantità - altrimenti non avrebbero effetto se non sul senso del tatto - saranno sostanze; e di nessuna altra sostanza se non della sostanza del pane - quale altra potrebbe essere indicata - per cui si ottiene ciò che si tentava. La stessa conclusione segue in maniera non meno evidente quella sentenza in cui si afferma che le parti della sostanza sono entitative, distinte dalla quantità dimensiva e non realmente distinte dalla sostanza.” 8) “Si deduce anche direttamente che non rimangono altri accidenti nell’Eucaristia oltre la quantità, la figura etc. Infatti, il sapore, e l’odore sono puri vocaboli se non hanno relazione al senso, ciò secondo l’opinione erronea del Linceo. Quindi gli accidenti non sono distinti in maniera assoluta dalla quantità, figura, etc. Se l’autore intende per particelle minime le specie sensibili, troverà alcuni protettori nella filosofia degli antichi, ma sarà costretto ad affermare molte cose assurde e contrarie alla fede. Per il momento, siano sufficienti queste, di cui può farsi ulteriore indagine presso il Sant’ Uffizio.” Circa il documento EE291, Camerota riporta l’ipotesi di Thomas Cerbu secondo la quale Inchofer avrebbe compilato il giudizio su Il Saggiatore mentre nel 1632 faceva parte della commissione incaricata di esaminare il Dialogo sopra i due massimi sistemi, rispondendo ad una denuncia presso il Sant’Uffizio risalente al 1624 o 1625.
“Pertanto - conclude Camerota - EE291 rappresenterebbe una scrittura destinata ad una circolazione interna alla commissione di cui Inchofer faceva parte.” Perciò, tanto il 


documento G3 quanto il documento EE291 “… non ebbero niente a che vedere ed in nessun modo influirono sulle vicende del successivo processo celebrato contro Galileo…”
La disamina fatta pare far pervenire a quanto segue: 1) I documenti G3 ed EE291 riguarderebbero una denuncia o segnalazione anteriore al processo, risalente al 1624 - 5, e nulla avrebbero a che fare con esso, e l’atomismo sarebbe dunque estraneo al processo di Galileo che verterebbe unicamente sul copernicanesimo. 2) Conseguentemente non ci fu nessuno spostamento nel processo dalla accusa di atomismo a quella di copernicanesimo.
3) Non fu Padre Orazio Grassi a redigere personalmente il documento G3.
4) La stretta relazione ammessa da Camerota tra EE291 e G3, insieme al fatto che EE291 sia stato redatto da Inchofer dimostra la non totale estraneità dei gesuiti riguardo alla segnalazione per atomismo del 1624 – 5. 5) Il documento del Guiducci, sia che in esso si consideri la tesi del moto riferita ai corpi (come vogliono i copernicanisti), sia che la si consideri riferita ai corpuscoli (come vogliono gli atomisti), è poco significativo trattandosi di una informativa privata e personale di questi a Galileo. C’è però una considerazione dalla quale non sento di esimermi: processare Galileo oppure no, è anzitutto una scelta politica prima che giuridica, è scegliere di fare un gran rumore a livello europeo, tale era la notorietà di Galileo.
Il rumore - oggi diremmo la pubblicità indiretta - ha per oggetto ciò per cui si va a processare lo scienziato pisano. Si è scelto di fare un gran rumore e di farlo per il copernicanesimo.
Infine, cosa dire del volume del Camerota? Esso, in generale, è un pregevole studio di “tutto” Galileo, di cui disamina in modo accurato la scienza, le opere, i processi, e le realtà scientifiche, culturali e socio politiche ed economiche in cui tutto si dipana, svolto da un’ottica che pur privilegiando il copernicanesimo non esclude il discorso atomistico.
E’ un testo importante per chiunque voglia approfondire lo studio del grande scienziato pisano.
Chiudo con un GRAZIE a Galileo Galilei di cui io ho, e lo dico 


apertamente, l’immagine di un uomo grandissimo e di un grandissimo scienziato, di quello che ebbe la grande genialità dell’intuizione della visione unitaria della natura, mettere al centro il sole è mettere al centro la luce: atomismo e copernicanesimo sono tutt’uno. E soprattutto luce e corpuscoli - oggi diciamo materia - sono due manifestazioni della stessa realtà: è il dualismo onda - particella anticipato di alcuni secoli... Galileo è l’eroe che ha combattuto contro tutto e tutti per la verità.
Tutti dobbiamo a lui ed a quelli come lui se viviamo in un mondo migliore.
Prima di scendere per le festività natalizie qui in Sicilia, sono passato a Roma ad augurare buone feste al mio padre spirituale, il quale mi ha regalato una copia del compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, di cui da tempo auspicavo la pubblicazione, ne cito quanto affermato al cap. I, punto 3 : “Partendo dalla creazione, cioè dal mondo e dalla persona umana, l’uomo, con la sola ragione, può con certezza conoscere Dio come origine e fine dell’universo e come sommo bene, verità e bellezza infinita.”
E’, sostanzialmente, quanto affermava Galileo.

BIBLIOGRAFIA
1) GALILEO GALILEI e la cultura scientifica nell’età della riforma, di Michele CAMEROTA, Salerno editrice, ROMA, 2004.
2) GALILEI der ketzer, di Pietro Redondi, C.H. Beck, Muenchen, 1984.
3) Il Saggiatore, Roma, Novembre 1623, WWW. Filosofico. Net, Biblioteca, Galileo.
4) Documento G3 (in appendice al testo di Redondi).
5) Documento EE291 (citato nel testo di Camerota alle pp. 394 - 395).

 


martedì 10 luglio 2018

Edith Stein e l'aristotelotomismo tra scienza e fede.


Le fondamenta portanti della Metafisica aristotelotomista sono poste da Aristotele in quell'opera che dovrebbe essere ad essa propedeutica ed in conclusione alla quale anche si rimanda alla Metafisica: il De Anima o Perì Psyches. Ebbene queste fondamenta sono scientifiche e confermate dalla scienza contemporanea a cominciare dall'evoluzionismo, dalla tripartizione del sistema nervoso (anima vegetativa, sensitiva e razionale), dalla percezione sensoriale e dal suo modus, alla stessa definizione di Ente (il Concetto assolutamente primo della ns Mente). Ciò che invece a partire dal fondatore delle neuroscienze moderne, Jean Martin Charcot, Maestro di Freud, da Freud, Jung e tutti gl'altri è stato dimostrato non corrispondere sono le “Categorie”. Edith Stein, ebrea tedesca inizialmente laica e seguace delle correnti moderne in linea con le scienze contemporanee, con la conversione al cattolicesimo integra queste concezioni moderne con quelle antiche confermate dalla Scienza. Il risultato è un quadro affascinante 


scientificamente fondato e fondato sulla Fede: la completa Filosofia contemporanea. Quando Filippo il macedone prima ed Alessandro magno poi mandavano in perlustrazione spie e pionieri, quasi sempre erano accompagnati dagl'assistenti del primo scienziato di corte: Aristotele. Essi avevano l'ordine di osservare ed eventualmente repertare flora, fauna e fossili e lo facevano con grande attenzione. Egualmente con grande attenzione veniva eseguito lo studio degl'embrioni. Da qui il convincimento - 2.300 anni prima di Darwin - che la vita si evolvesse dalle forme più semplici a quelle più complesse. E, così come il triangolo è la figura geometrica più semplice e perciò prima e per questo compresa nelle successive più complese, così anche per l' "Anima", inizialmente solo vegetativa, poi anche sensitiva ed infine pure razionale. Realtà condivise dalla medicina moderna e contemporanea. Ma non finisce qui, quando infatti lo stagirita comincia ad occuparsi del senso e della sensazione, della percezione, lo fa di 


nuovo anticipando la medicina dell'ultima settantina d'anni: perché possa esserci sensazione è necessario che il percepito (la medicina contemporanea lo chiama stimolo) superi una soglia minima e che si mantenga al di sotto di una soglia massima altrimenti si ha la distruzione dell'organo di senso, come per l'occhio con la luce troppo intensa o per l'orecchio con il suono troppo forte. E' necessario inoltre che entrambi, soggetto ed oggetto siano simultaneamente in atto: che cioé la lampada che può anche essere solo illuminante in potenza, ovvero spenta, sia illuminante in atto, ovvero accesa; e che l'occhio guardi. Analogamente per gl'altri sensi. Quando questo accade si ha un momento primo del percepire, in cui illuminante in atto e vedente in atto sono simultaneamente uniti. Soggetto ed oggetto sono pertanto ancora indistinti in esso, o in altri termini la loro distinzione è successiva. E' questo 


l'istante in cui avviene anche la connessione al piano successivo, quello dell'Anima Razionale: anche qui è necessario che intelletto ed intelligibile siano entrambi in atto ed anche qui si ha un termine assolutamente primo in cui intelligente ed intelligibile sono simultaneamente uniti e che precede la successiva distinzione di soggetto ed oggetto. Questo termine è l'Ente, realtà assolutamente prima ed indefinibile che comprende in sé tutto ciò che è e può essere. E' quanto confermato anche dalle neuroscienze contemporanee. Ciò di cui invece le neuroscienze contemporanee, a partire da Jean Martin Charcot alla Salpetriere, ma poi anche Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e tutti gl'altri, hanno dimostrato non corrispondere sono le famose “Categorie”. Aristotele, inizialmente, ne annoverava 10, categorie della realtà, di cui le più importanti erano la sostanza e l'accidente, nel corso dei secoli il numero è stato ora 


accresciuto, ora diminuito. Ultimo Immanuel Kant le aveva ridotte a due in cui confluivano tutte le altre: lo Spazio ed il Tempo ed erano categorie della Mente (la famosa "rivoluzione copernicana" di Kant).  Ebbene si è dimostrato inconfutabilmente, con Aristotele e contro Kant, che Spazio e Tempo sono categorie non della ns Mente, bensì del mondo esterno nel quale, sin dalla nascita, siamo coerciti. Si pone allora il problema di come proceda nel suo lavoro la ns Mente. Charcot qui ha posto le basi, ma quello cui si deve la definitiva chiarificazione è il suo allievo Sigmund Freud: la ns Mente procede ordinando ed associando i ns vissuti in base alla loro forza, a quella delle pulsioni in atto al momento in cui furono vissuti ed al presente. E' tassello che Edith Stein incorpora nell'aristotelotomismo classico. L'opera di riferimento è “Psicologia e Scienze dello Spirito”. Il terzo livello del “De Anima”, ovvero l'anima razionale assume la seguente configurazione: 1° livello, Psiche: la forza vitale “colora” i vissuti; 2°livello: Coscienza: l'io ed i suoi vissuti; 3° livello, lo Spirito. L'analisi della Stein 


dà dunque conto della spiritualità quale forma più alta della realtà umana. Questa concezione, in linea con i risultati delle moderne neuroscienze, consentead Edith Stein il passaggio successivo: “Dalla psicologia il suo sguardo indagatore si amplia alle scienze sello Spirito, passando da un'analisi riferita al singolo individuo ai legami intersoggettivi che trovano la loro espressione più naturale nella comunità (Angela Ales Bello)”. La Scienza contemporanea dunque, lungi dall' "affossare" la "vecchia" Metafisica, ne dimostra scientificamente i fondamenti, che ancor prima che fondamenti di chi asserirà poi "Cogito ergo Sum" sono quelli di chi afferma "Cogito ergo Deus existit"...
francesco latteri scholten.

venerdì 25 maggio 2018

Il '68: una porcheria nel suo 50° anniversario.


La scintilla è lì, il 3 maggio 1968 alla Sorbonne icona francese dai tempi di San Tommaso, e la motivazione giusta e sacrosanta: la libertà di studio e di insegnamento. La stessa dei moti studenteschi del 1229, sempre alla Sorbonne, che videro sulle barricate con gli studenti, in sua difesa, tra gl'altri, appunto l'aquinate che per l'occasione uscì con il suo scritto più accorato: “Contra impugnantes Dei cultum et religionem” (all'epoca Tommaso era un grande ed inviso progressista). Nel '68 sulle barricate con gli studenti ci sono professori ed intellettuali non meno famosi e significativi di Tommaso ai suoi tempi (ne cito solo alcuni): un 


giovane e brillante Michel Foucault autore di testi come “Sorvegliare e punire”, “Il potere psichiatrico” “La storia della follia” “L'ermeneutica del soggetto”; una già attempata Simone De Beauvoir icona del femminismo francese e della resistenza; il suo compagno di sempre, amico di Foucault, Jean Paul Sartre: “L'essere ed il nulla”, “La Nausée”, “Les mains sales”. Tuttavia, se nel 1229 la sommossa raggiunge intensità significative, essa si appella però direttamente alle massime autorità civili e religiose, il Re ed il Papa, per i propri diritti, mentre invece nel 1968 le rivendicazioni assumono assai presto connotazioni antisistemiche tout court dove il 


sistema è avversato perché tale. Il “maggio francese” diventa una cassa di risonanza in cui confluisce tutto un filone iniziato negli anni '50 e '60 con forte diffusione grazie soprattutto, ancor prima che all'università, alla musica ed al cinema. Tra le icone più celebri i Beatles, i Rolling Stones, Bob Dylan, i Queen; per il cinema il celebre “Pat Garret e Billy the Kid” e le tante interpretazioni di John Wayne. La concezione che ritroviamo è però a ben vedere più datata e la si ritrova in pieno in quei figli deviati dell'Illuminismo che furono i romanticisti, in particolare ben ritroviamo molto di Nietzsche e di Leopardi. La 


radice filosofica la ritroviamo in una non corretta lettura di Platone già ai tempi del Rinascimento. C'è la cristallizzazione del pensiero di Platone ne “La Repubblica o sulla giustizia”, “Il Simposio”, “ il “Teeteto”, il “Gorgia”. In particolare la concezione – al pari che in Nietzsche, Leopardi e nelle correnti anni '50 e '60 - astratta dell'uomo che di fatto è sradicato dalla famiglia, dalla patria, dalla storia. Da qui una concezione del diritto e della giustizia falsati. Correttamente nei “Lineamenti di filosofia del Diritto” (ma anche nell' “Enciclopedia”) Hegel osserva come sia con la 


nascita della Famiglia, primo nucleo della società e dello Stato che il diritto passi da astratto a diritto concreto. Platone invero fa anch'egli questo passo quando nel suo ultimo scritto (fu trovato “addormentato” mentre ne ricorreggeva il testo già ultimato), i “Nomoi”, le Leggi, si chiede quale debba essere non il diritto astratto e lo Stato ideale, bensì il diritto concreto nello Stato storicamente dato. Non c'è più, come negli scritti di prima, l'Eros che è anche pederastria o omosessualità, bensì amore di coppia – eterosessuale – finalizzato alla procreazione. E' il punto che Nietzsche e Leopardi (di entrambi sono note le tendenze 


omoerotiche) e le correnti anni '50 e '60 così come il '68, rigettano. L'uomo che ne risulta è un uomo sradicato senza famiglia, patria e storia, quello riproposto da tanti media di oggi e celebrato perché utile al capitalismo. E di fatto, come ha ben evidenziato più di una indagine economica, i sessantottini sono i “ribelli” più ricchi nella storia della Francia: una sommossa radical chic come acutamente osservava Pier Paolo Pasolini: “La piazza borghese contro i poliziotti proletari”. Con il rigetto del diritto che passa alla concrezione con la famiglia, si pongono le radici dei movimenti LGBT, Gender, matrimoni gay, uteri in affitto, concezione in provetta e 


quant'altro. L'esito più nefasto è la rottura dell'equilibrio tra persona e società, che, se è vero che prima era un tantinello spostato sul lato della società, adesso lo è sulla persona. Ma così il concetto stesso di persona è mutato radicalmente. La società invece è distrutta con tassi di geriatria e decessi che non possono essere più pareggiati dalle poche nascite. Insomma si porta avanti una ideologia di disidentità e di morte. E, forse, non è un caso che siano dei satanisti Mick Jagger degli “Stones”, Freddie Mercury dei Queen, Bob Dylan e John Lennon. Vogliono, come tutto il '68, collocarsi “oltre”, superare, andare “al di là”: stanno 


uccidendo il nostro mondo a cominciare dalla Famiglia, dalla Patria, dalla Cultura, dalla Persona. Solo in Italia ogni due anni scompare per denatalità una città come Messina, 350.000 abitanti. Se si fosse gettata un'atomica se ne parlerebbe tra duecent'anni, così non dice niente nessuno... Al tempo con l'immigrazione ne sorge un'altra di 250.000 abitanti: una vera sostituzione etnica. Ecco la realtà dell' “oltre”. Michel Houellebecq bene descrive il '68 come “l'anno della catastrofe, che ha lasciato solo miseria, individualismo e violenza”. In sintesi: il 68? Una Porcheria.
francesco latteri scholten.

martedì 8 maggio 2018

A 50 anni dalla pubblicazione di Humanae Vitae. Verità, fedeltà e profezia nel Magistero di Paolo VI.


Quest'anno ricorrono i 50 anni dalla pubblicazione – era il 25 luglio del 1968 – dell'Enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI, che, come i più sapranno, condensa, nei suoi 31, brevi capitoli, una magistrale ed insuperata sintesi degli insegnamenti morali della Chiesa Cattolica su temi che vanno dalla pratica della castità coniugale, da iscriversi sapientemente nel quadro di una mutua relazione di grazia che ha origine e fondamento nel vincolo sacramentale del matrimonio, all'esercizio responsabile e libero della genitorialità, nella cui trasparenza cogliere la ratio prima ed ultima delle dinamiche sessuali di coppia; dalla liceità del ricorso ai metodi di regolazione naturale della fertilità, resi oggetto di un giudizio informato ad una concezione antropologica che fonda da sempre il magistero universale ordinario della Chiesa in materia morale, agli effetti molteplici, crescenti, per molti versi esiziali, legati al diffondersi su scala globale di una mentalità contraccettiva. Si sarebbe portati a dimostrare la verità degli insegnamenti contenuti, in ordine a detti temi, in questa Enciclica muovendo esclusivamente dall'analisi storica delle reazioni che essa fin dall'origine ha generato. A dire che, se da sempre la Chiesa è stata chiamata ad essere “segno di contraddizione” agli occhi di popoli e di ere accecati da un attaccamento idolatrico alla cose ed alla mentalità del mondo, l'eroicità inconcussa del μάρτυς, del testimonio immarcescibile, è esattamente ciò che si può cogliere guardando al travaglio intimo e, al contempo, alla serena e lucida fermezza conservata, nel tempestoso iter che portò all'elaborazione prima e alla 


promulgazione poi dell'Humanae Vitae, da parte di Paolo VI. Detto iter ebbe inizio nel 1963, quando Giovanni XXIII decise di istituire una "Commissione pontificia per lo studio della popolazione, della famiglia e della natalità", col compito di ricercare e proporre soluzioni circa la possibile conciliazione dottrinale tra la morale tradizionale cattolica in materia sessualità coniugale e le tecniche di regolazione delle nascite. La vulgata neomaltusiana, particolarmente in voga all'epoca – siamo alle soglie del '68, del decennio cioè che avrebbe rivoluzionato, su scala globale, costumi, abitudini e forma mentis di intere generazioni– aveva permeato potentemente le agende e la comunicazione istituzionale dell'ONU e di altre organizzazione non governative come l'International Planned Parenthood Federation, veicolando il consunto, allarmistico proclama circa la crescita esponenziale e fuori controllo della popolazione, e agitando lo spauracchio di sempre, l'incapacità del pianeta di rigenerarsi e garantire una copertura alimentare per tutti. Da qui l'interesse anche da parte del Papa e delle gerarchie vaticane per questi temi, che si sarebbe sostanziato nella creazione della Commissione già menzionata, voluta da Giovanni XXIII. Lo studio operato da parte di questa sarebbe proseguito fino al 1966 quando la Commissione consegnava l’esito dei lavori, che veniva tuttavia secretato in attesa delle decisioni di Paolo VI, nel frattempo assurto al soglio pontificio. Ma, prima di conoscere il parere del Pontefice, nell’aprile del 1967, venivano riportati sulle principali testate internazionali i risultati delle votazioni finali avvenute in senso alla medesima Commissione. Si racconta dell'esistenza di due pareri contrastanti, uno favorevole al riconoscimento della liceità morale della "pillola contraccettiva", approvato con 70 voti, e uno contrario, approvato con soli 4 voti, versione tuttavia mai confermata ufficialmente. Paolo VI, allora decise di giocare un'altra mossa, che sarebbe stata decisiva e dirimente. Incaricava prima la Congregazione della dottrina della fede, che avrebbe lavorato al testo dal giugno del ’66 fino alla fine del ’67, e poi la Segreteria di Stato, che invece avrebbe operato sullo stesso fino alla metà del ’68. L'obiettivo era quello di 


approfondire il caso, ascoltando il parere autorevole di nuovi esperti: il materiale complessivamente raccolto sarebbe alla fine servito a Paolo VI per scrivere e pubblicare l'Humanae vitae. L'Enciclica si apre accennando ad un nodo cardine dell'articolata e sistematica riflessione condotta da Paolo VI, quello cioè relativo al «gravissimo dovere di trasmettere la vita umana, per il quale gli sposi sono liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore» (Humanae Vitae, n. 1), aspetto che fin da subito viene posto in connessione con una serie di nuove, urgenti questioni che l'evolversi della società ha generato e che «la Chiesa non può ignorare» (Ibidem). Tali urgenze, a detta del Pontefice, attengono: 1) alla rapidità dello sviluppo demografico che porta con sé tentazioni di controllo biopolitico della crescita delle popolazioni da parte dei governi nazionali e degli organismi internazionali; 2) all'accresciuta esigenza di regolare le nascite all'interno dei singoli nuclei familiari, col fine di garantire condizioni di vita migliori alle nuove generazioni; 3) agli scenari inediti venuti a configurarsi in seguito ai nuovi ruoli sociali riconosciuti alle donne e alla mutata considerazione culturale delle stesse che ne è derivata; 4) alla straordinaria ampiezza e profondità dei progressi compiuti dall'uomo quanto al dominio razionale ed organizzazionale delle forze della natura, per mezzo dell'ausilio della tecnica. A fronte di tali, epocali sfide si facevano sempre più pressanti le domande volte a questionare la validità di norme morali la cui efficacia pareva messa in discussione dall'accresciuta difficoltà a garantirne, nei mutati contesti culturali e sociali, una reale osservanza, «dato l'accresciuto senso di responsabilità dell'uomo moderno, [che induce a chiedersi se] non sia venuto il momento di affidare alla sua ragione e alla sua volontà, più che ai ritmi biologici del suo organismo, il compito di trasmettere la vita» (HV, n. 2). Domande, quindi, che, come si può facilmente intuire, mettevano in dubbio la validità della stessa «dottrina morale del matrimonio, dottrina fondata sulla legge naturale e arricchita dalla rivelazione divina» (HV, n. 3). Solo nella profondità di tale respiro metafisico, si può dare infatti contezza piena della valenza soprannaturale del matrimonio 


cristiano, «sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell'umanità il suo disegno di amore. Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione ed educazione di nuove vite» (HV, n. 8. Vengono, all'interno di questi passi ispirati, sapientemente condensati i gangli della dottrina cristiana sul matrimonio, la cui singolare importanza, nell'economia complessiva degli strumenti di santificazione e salvezza messi a disposizione dell'uomo, si evince oltre che dal numero e dall'ampiezza dei passi biblici che ad esso espressamente si riferiscono, anche dal fatto che Cristo stesso lo avrebbe innalzato alla dignità di sacramento, ovvero di segno tangibile, efficace ed immanente della sua Grazia trascendente e salvifica, che la Chiesa è chiamata a dispensare per mezzo di ministri le cui funzioni, in questa specialissima fattispecie, vengono assolte dagli stessi nubendi. Ora, la finalità costitutivamente propria dell'espressione corporea della loro sessualità, è data dalla fecondità potenziale di un atto di amore che è strutturalmente aperto all'esistenza di chi non è ancora, alla generazione cioè di una nuova vita. L'apertura alla procreazione è cioè una componente intenzionale coessenziale dell'atto coniugale, dal momento che la stessa unione genitale degli sposi è finalizzata intrinsecamente alla comunicazione della vita, come donazione integrale e reciproca che gli stessi sono chiamati ad attuare. A dire che l'unione carnale dei coniugi non è mai un incontro situabile solo a livello biologico, perché la sua fecondità simbolica permane immutata a prescindere dall'effettivo avvio di un processo fisiologico che porterà alla generazione di una nuova vita. La procreazione responsabile è, piuttosto, deliberata apertura alla vita da parte dei coniugi che si donano nella loro totalità e proseguono questa donazione d'amore prolungandone gli effetti nell'assolvimento congiunto del compito educativo. Portato fuori dal contesto dell'amore coniugale, 


pertanto, l'atto riproduttivo smarrisce la sua dignità di atto nel quale gli sposi cooperano al disegno di Dio nella creazione di una nuova vita, perde cioè la sua profondità e consistenza propriamente sponsale. La mediazione corporea, infatti, interrompe il nesso di causalità tra decisione procreativa e nascita di una nuova vita e apre simbolicamente al mistero di una vita “altra” rispetto a quella dei genitori, alterità che, a prescindere dalla sola concatenzione biologica degli eventi unitivi, è insieme indice e cifra della sua dignità singolare, ineludibile e irripetibile, in una parola della sua dignità personale. E solo in una prospettiva personalista siffatta possiamo finalmente cogliere la fisionomia originaria e propria dell'atto coniugale. È questo il significato profondo che emerge dal tessuto argomentativo dell'Humane Vitae, confermato, tra l'altro, nella pienezza della sua valenza dottrinale, dalla Familiaris Consortio: tra i due significati dell'atto coniugale, unitivo e procreativo, vi è una implicazione reciproca, nel senso che l'unità tra i coniugi sarà piena solo se vi sarà una contestuale disponibilità ad accogliere una nuova vita: «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all'altissima vocazione alla paternità» (HV, n. 12). Innestare il contributo unitivo dei coniugi in una progettualità che li comprende e li supera infinitamente, significa far propria quella concezione che vede il figlio come un dono, la determinazione delle cui fattezze, non solo somatiche, mai potrà dirsi nella disponibilità esclusiva dei genitori, che dunque sono una volte per tutte chiamati ad uscire dalla logica dell'attuazione di un “progetto generativo”, attraverso il quale poter dare concretezza ai loro deliberati desideri procreativi. La paternità responsabile non è infatti attuazione rigida e fredda di un'attività programmatica –come accade, ad esempio, nella messa in atto di un progetto procreativo che domandi l'ausilio delle tecnica in fase di fecondazione, sia essa omologa od eterologa– ma è piuttosto l'assenso prestato ad un compito che chiede “cor-responsabiltà”: la scelta di avere un figlio non è mai solo una conseguenza esclusiva e diretta 


della decisione generativa dei coniugi, ma quando si affida alla mediazione dell'unione corporea propria dell'atto coniugale, accetta di sostanziarsi in una forma di adesione ad un progetto previo, ad un precedente disegno nel quale i coniugi scelgono di entrare liberamente, ma il cui contributo non esaurisce completamente. È in questo senso allora che ogni tentativo messo in campo dai coniugi con il fine specifico di alterare l'incedere fisiologicamente proprio di un processo generativo, non può non esser visto come un'interferenza indebita nei dinamismi attuativi di una simile progettualità trascendente: è da escludersi dunque la liceità morale di qualsiasi azione che, «o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione» (HV, n. 14). La fisiologica potenzialità procreativa dell’unione coniugale è un bene così intimamente radicato nei dinamismi di coppia e nella natura amorosa dei suoi rapporti che, pur in presenza di altri requisiti dell’amore coniugale, il suo impedimento contraccettivo non può essere ottenuto senza una simultanea ferita alla dignità delle loro persone e all’integrità dei significati oblativo e unitivo del rapporto, integrità che, sola, lo rende autenticamente umano. Nella sua originaria “verità”, infatti, la sessualità sponsale parla il linguaggio della reciproca donazione e dell'accoglienza totale (“io mi dono totalmente a te e ti accolgo totalmente”), mentre nel dispiegarsi dell'artificio contraccettivo viene costretta parlare un linguaggio ad essa estraneo, il linguaggio delle reciproca negazione (“non mi dono totalmente e non ti accolgo totalmente”). Il riconoscimento auto-osservativo della fertilità femminile, ciclicamente ricorrente, è che alle coppie desiderose di avere un figlio rende possibile lo svolgimento mirato della sessualità nel periodo fertile del ciclo e alle coppie bisognose, per gravi ed ineludibili ragioni, di dovervi rinunciare, mediante il suo svolgimento elettivo nei periodi fisiologicamente non fertili della donna, rende possibile la salvaguardia della pienezza dei loro atti coniugali, che sarebbe viceversa violata dal ricorso alle pratiche contraccettive. Un esercizio rispettoso della propria e altrui fertilità, da parte di ogni coniuge, all'interno di ogni singolo atto coniugale, realizza la virtù della castità sponsale, disposizione morale capace di richiamare i protagonisti all'esercizio congiunto di tutte le virtù veramente necessarie alla vita matrimoniale colta nel suo insieme, oggi radicalmente messa in discussione 


tanto dal ricorso sfrenato ad una sessualità di coppia che ha sempre più i tratti della megalomania pornografica, quanto dal ricorso alle tecniche di manipolazioni non terapeutiche della fisiologia procreativa. La pratica dell'astensione dalla sessualità tra i coniugi nei periodi fecondi, in nessun caso può essere assimilata alla decisione di una sessualità deliberatamente deprivata della sua connaturale apertura alla vita: vero è che in entrambi i casi i coniugi perseguono l'obiettivo di evitare una gravidanza, ma solo nel primo, la gravità obiettiva dei motivi che si accompagna a tale scelta domanda che essa si sostanzi nell'astensione completa dai rapporti nei periodi fecondi, per continuare a fruire, nei periodi ciclicamente infertili, di quella che costituisce una componente intimamente necessaria alle dinamiche dell'amore coniugale, l'esercizio responsabile e rispettoso della sessualità appunto. Nel caso del ricorso alle metodiche contraccettive, invece, in nessun momento vengono considerate le esigenze: 1) della continenza periodica, da iscriversi nel più ampio quadro della castità coniugale; 2) dell'astensione dal ricorso ad un uso strumentale della medesima componente sessuale; 3) della rinuncia ad interferire nell'incedere fisiologico delle naturali dinamiche delle sessualità coniugale, aspetti tutti che, al contrario, nella pratica dell'astensione dai rapporti matrimoniali nei periodi fertili, vengono pedissequamente osservati ed onorati. È per questo che «i due casi differiscono profondamente tra di loro: nel primo i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell'altro caso impediscono lo svolgimento dei processi naturali» (HV, n. 16). Parlare allora dei beni della castità, matrimoniale e non, della indisgiungibilità del momento unitivo e procreativo dell'atto sessuale coniugale, della regolazione naturale della fertilità di coppia, come di virtù morali naturali, significa leggerne l'essenza alla luce non solo della ragione pratica che, illuminata dalla fede, può coglierne il senso autentico, ma anche appurarne il loro essere naturalmente preordinate a favorire lo sviluppo umano integrale di ogni persona, così come il dispiegarsi in pienezza della donatività reciproca ed incondizionata sottesa all'esistenza del vincolo sponsale, beni che sono tali agli occhi di ogni ragione che voglia dirsi tale, che non voglia cioè ingannarsi deliberatamente. Uno stile di vita coniugale ispirato 


ad un simile esercizio virtuoso della sessualità sponsale non solo agevola l’edificazione serena e fruttuosa della primordiale cellula di ogni società umana, qual è la famiglia nucleare, ma fa sì anche che i suoi benefici effetti si estendano agli altri ambiti della vita di relazione, propiziando la realizzazione di un altro sogno vagheggiato dalla visionarietà profetica di Paolo VI, quello dell'instaurazione di una “civiltà dell'amore” che sola potrà rendere la città terrena ad immagine di quella celeste. L'eclissi lenta, progressiva, inesorabile di una cultura della sessualità coniugale ultimamente fondata sull'antropologia cristiana della castità sponsale, i cui tratti precipui abbiamo cercato di sbozzare fin qui, ha prodotto la diffusione, ormai su scala globale, della cosiddetta “mentalità contraccettiva”, intendendosi, con questa locuzione, un modello culturale che ha realizzato una serie interminabile di esiziali effetti a catena, che vanno dall'aborto alla banalizzazione della sessualità con conseguenti ricadute sulla moralità dei singoli come delle collettività nel loro insieme; dalle violenze a sfondo sessuale alla strumentalizzazione della donna; dalla pornografia all'adozione sempre più massiccia di soluzioni biopolitiche di controllo delle nascite; dalle distruzione dell'unione matrimoniale e della famiglia, con conseguente aumento del numero dei divorzi ai casi di marginalizzazione sociale delle fasce più deboli. Tutto questo dimostra inequivocabilmente come l'inquietudine di Paolo VI, la sua insonne ansia di sventare la minaccia dell'irrompere sulla scena sociale mondiale di una mentalità siffatta, al costo pure di tante sofferenze, umiliazioni, incomprensioni, era nient'altro che la mesta prefigurazione, il triste presagio di una rivoluzione antropologica che di lì a poco avrebbe subdolamente offerto a generazioni e popoli i suoi ingannevoli frutti di distruzione e di morte. Da qui la sua profetica insistenza sull'integrità ed integralità del messaggio che la Chiesa doveva continuare a trasmettere, senza lasciarsi influenzare dal carattere radicale e polemico della montatura mediatica che di lì a poco l'avrebbe investita, ma anzi ribadendo che la sua vocazione ad essere “segno di contraddizione”, e dunque non cessando per un istante dalla sua missione «di proclamare con serena fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica. Di essa la Chiesa non è stata autrice, né può quindi esserne arbitra; ne è soltanto depositaria ed interprete», e come tale essa sola è in diritto di reclamare il suo ruolo di sempre, quello di «amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare, fin dal loro itinerario terrestre, “a partecipare come figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”» (HV, n. 18).
Antonio Casciano, Elio Card. Sgreccia.