venerdì 15 novembre 2013

Athena precursore del Lògos.



“Zeus sedeva su uno sgabello. Guardava fisso davanti a sé. Una brezza gli sfiorava la barba venata di grigio. Qualcosa avveniva nella sua testa e gli dava un’ebbra spossatezza. Quando Zeus aveva bevuto la sua sposa Metis, su consiglio di Ge e Urano, secondo i quali un giorno Metis avrebbe partorito un dio più forte di Zeus e capace di soppiantarlo, Metis era già pregna di Athena. La bambina fluì nel corpo di Zeus e lì, in quel recesso invisibile persino agli dèi, Zeus le aveva trasmesso la sua antica arma, l’egida, pelle scuoiata di Egis, il mostro dal soffio ardente. Ora Zeus sentiva la sua volta cranica raschiata dal giavellotto acuminato di Athena. Tutto era acuminato in quella bambina: lo sguardo, la mente, che ora abitava la mente del padre, il profilo dell’elmo. Ogni concavità femminile era in lei celata come il rovescio del suo scudo. Zeus vide avvicinarsi due donne: le Ilitie, esperte di parti. Tacevano – e avvicinarono una mano alla sua testa, con delicatezza, senza osare toccarla. Poi si fece avanti Efesto con una scure di bronzo. Prima che Zeus dicesse una parola, Efesto aveva abbattuto la scure sulla sua testa e fuggiva, seguito dalle Ilitie. Perché fuggiva? Zeus continuava a tacere e sentì dentro di sé un grido acutissimo, simile alla voce di una tromba tirrenica. E di colpo si accorse di non essere più solo: con passi silenziosi, da tutte le direzioni, si erano avvicinati gli altri dèi. Riconosceva Hera, Ebe; Demetra e Persefone sedute sulla loro cesta, Dioniso sdraiato su una pelle di pantera con il tirso in mano. Dall’altra parte Poseidone, Afrodite, Eros, Apollo, Artemis, Hermes e le tre Moire, che sembravano confabulare. Tutti avevano lo sguardo rivolto verso di lui, ma non verso i suoi occhi, un po’ più in alto: lì Athena era apparsa dalla spaccatura del cranio, scintillante nelle sue armi, mentre Nike le svolazzava attorno con una corona in mano. Ora la vedeva anche lui: aveva poggiato i piedi per terra e si allontanava dal padre. Era l’unica che lo guardava negli occhi, volgendo la testa in un cenno di silenzioso saluto. Vedeva sua figlia o se stesso che si guardava? Poi Zeus girò lo sguardo sugli altri dèi. Sapeva, dalle espressioni gravi e solenni, che una nuova èra cominciava sull’Olimpo. (Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia)”. L’era nuova che Athena apre sull’Olimpo è quella in cui ciò che nasce e perciò ciò che è, è in quanto è nato dalla testa. Ma ciò che nasce dalla testa, dall’intelletto, dalla ragione, sono le idee. Athena inaugura un nuovo mondo, una nova realtà e con essa anche un nuovo metodo, ma con esso ella dà un nuovo “télos”, un nuovo indirizzo, soprattutto un modo diverso di orizzontarsi, di muoversi, di vedere, di “intus legere”. Si apre, partendo dal vecchio Olimpo con i suoi déi vetusti, una nuova realtà. Si parte dal mito, ma ci si muove oramai oltre il mito. E’ un passo di Hegel a chiarire bene cosa qui accada e come si schiuda il nuovo mondo: “Il mito è sempre un’esposizione che si serve di modalità sensibili, che suscita immagini sensibili adatte per la rappresentazione ma non per il pensiero: è un’impotenza del pensiero, il quale non sa ancora reggersi per sé, non sa ancora comunicarsi. L’esposizione mitica, in quanto più antica, è un’esposizione in cui il pensiero non è ancora libero: essa è una contaminazione del pensiero mediante una figura sensibile che non può esprimere ciò che il pensiero vorrebbe esprimere. Il mito eccita e attrae, spingendo a occuparsi del contenuto; è qualcosa di pedagogico. I miti appartengono alla pedagogia del genere umano. Ma quando il Concetto si è destato, allora non ha più bisogno di miti (Hegel, Vorlesungen ueber die Geschichte der Philosophie)”. Ora l’orizzonte al cui sguardo apre Athena è quello in cui idein – da cui eidos e idéa – non ha più il significato di vedere dove il veduto è il sensibile, ma in cui il veduto è la forma interiore delle cose, la loro natura specifica, la loro essenza: ciò che è assolutamente Vero, che ha cioè il carattere della intelligibilità, dell’incorporeità, dell’essere in senso pieno, dell’immutabilità, della perseità, dell’unità. Queste idee sono e non possono che essere l’oggetto proprio di quel quid a cui esse per la loro stessa essenza rimandano: il pensiero, il Soggetto. Esso è Quello con cui Hegel chiude la sua “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, lo stesso, descritto con le medesime parole, quelle greche antiche, con cui già anche Aristotele l’aveva descritto: “Il pensiero che è puramente per sé stesso, invece, è pensiero di ciò che è più eminente in sé e per sé, e quanto più il pensiero è puramente per sé stesso, tanto più esso è pensiero di ciò che è più eminente. Ora il pensiero pensa se stesso quando accoglie il pensato. Il pensiero viene pensato quando tocca e pensa, per cui il pensiero e il pensato sono la stessa cosa. E’ il pensiero, infatti, ad accogliere il pensato e l’essenza. Il pensiero è attivo nella misura in cui possiede, per cui quella attività è più divina di ciò che la ragione pensante crede  di avere di divino. La speculazione è quindi la cosa più felice e la migliore. Ora, se Dio è sempre in questa felicità, mentre noi vi siamo solo talvolta, allora Egli è degno di ammirazione; e se lo è ancora di più, è ancora più degno di ammirazione. E Dio è in questo stato. In Dio, però, c’è anche vita. L’attività del pensiero, infatti, è vita. Dio è l’attività, l’attività che procede su se stessa è la vita più eminente ed eterna di Dio. Noi diciamo così che Dio è una vita eterna, la migliore. A Dio spetta dunque vita ed esistenza continua ed eterna. Dio infatti, è proprio  questo (Aristotele, Metafisica XII 7; Hegel “Enciclopedia delle scienze filosofiche”)”. E’ l’orizzonte al quale apre e guida Athena, quello delle idee e ciò a cui esse rinviano, di cui sono l’oggetto proprio: il Lògos. Si può partire da “ovunque” a lasciarsi guidare dalla grande déa antica, dalla splendida Athéna, ma l’approdo è in ogni caso lo stesso, quello in cui il reale è ciò che è razionale e ciò che è razionale è reale. Ma questo – Zeus mirando Athena lo intuisce - è quanto appare solo sul far del crepuscolo: “Per spendere ancora qualche parola riguardo alla pretesa di intuire su come dev’essere il mondo, va detto che, in proposito, la Filosofia giunge in ogni caso sempre troppo tardi. In quanto è il pensiero che pensa il mondo, essa si manifesta nel tempo solo dopo che la Realtà ha completato il proprio processo di formazione e si è ben assestata. Anche la storia mostra necessariamente ciò che il Concetto insegna, cioè: l’idealità appare davanti alla realtà soltanto nella maturità della Realtà, e allora l’idealità si costruisce il medesimo mondo, colto nella sua sostanza, nella figura di un regno intellettuale. Quando la Filosofia tinge il suo grigio sul grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio non è possibile ringiovanirla, ma soltanto conoscerla: la civetta di Minerva (Athena) inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo (Hegel, “Lineamenti di filosofia del diritto”)”. Una figura della vita è invecchiata, un’era volge al tramonto, è ciò che Zeus, dalle espressioni gravi e solenni degli altri déi, Sapeva, guardando negl’occhi, specchio dei suoi, di sua figlia. E noi, l’Occidente, siamo questo: la terra del Crepuscolo, l’ “Abend-Land”, la terra del volo della civetta di Athena. Tuttavia ad una nuova concezione di Dio corrisponde, necessariamente, una nuova concezione dell’uomo. Così ad Athena, la déa della nuova éra, corrisponde Ulisse, “Odisseo, colui che si distacca fra tutti i capi achei perché “sa pensare”, mentre gli altri guardano con reverenza alla sua mente molteplice, come al passo sfrecciante di Achille (…) Odisseo è colui che sa uscire da un braciere ardente. Nella parola che designa quell’uscire (nostésaimen) traspare il senso del ritorno (nòstos): l’uscire indenne è un ritornare. Nessuno sa ritornare come Odisseo. C’è un qualcosa di fermo, saldo, mai descritto, su cui l’eroe sa ogni volta di poter tornare a poggiare il piede, anche nelle più vaste oscillazioni. Che nella sua mente ciò sia una piccola isola dà la misura del rapporto spaziale fra quella scheggia rocciosa e l’immane distesa equorea. Eppure quella piccola e dura terra mentale, come il suo largo petto, è un qualcosa che offre resistenza e costante appoggio. Odisseo conosce il fuoco, lo incontra, lo sfida. Ma soprattutto, a differenza di tanti uomini e donne vicini al divino, Odisseo sa uscire dal fuoco (Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia)”. Nuovo è anche il rapporto tra l’uomo e la déa:” … giunge a Odisseo lo strido di un airone invisibile nella notte. E’ Athena che manifesta la sua presenza. Allora Odisseo si rivolge alla déa che sempre gli è stata accanto. Pronuncia poche parole asciutte e intime, meno della metà di quelle che, subito dopo di lui, le rivolgerà Diomede. Odisseo non ricorda precedenti paterni e non promette sacrifici. Dice alla déa: “Per una volta ancora amami, Athena, il più possibile”  (Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia)”. Lo Spirito nuovo, lo Spirito dell’ Occidente: “Per una volta ancora amami, Athena, il più possibile”.

francesco latteri scholten.

Il diritto positivo in San Tommaso d’Aquino.



Il diritto naturale ha in San Tommaso d’Aquino una sua grande intrinsecità e fondamentalità. Esso ha però anche un grande limite: la genericità. La vita dell’uomo è infatti eminentemente sociale, dunque comunitaria e politica ed in quanto tale essa esige una normazione particolareggiata, ben definita e determinata al caso specifico e concreto. E’ necessaria perciò una legge umana positivamente sancita. Tra le diverse cose che mi hanno colpito, studiando la Summa Theologiae dell’aquinate, c’è il fatto che se per lui la legge prima è quella con cui Dio ordina e crea l’universo e lo dirige al suo fine, se la manifestazione di questa legge nella cratura razionale è la legge naturale, che si ricollega con le potenze dell’intelletto e della volontà alle virtù - dove peraltro mi è sembrato leggere più che un discorso etico/morale, un vero trattato giuridico - , è altrettanto vero che poi l’aquinate dà questa definizione di legge: Comando della ragione ordinato al bene comune, promulgato da chi è incaricato di una collettività. (Q. 90, art.1). E’ una definizione giuspositivista, data alla Quaestio 90, la prima di quelle inerenti la legge, precedente la Q. 91, dove la legge è distinta in eterna, naturale etc. Sembra allora che si possa affermare che, sebbene la prima legge sia quella eterna e poi quella naturale, San Tommaso intenda propriamente come legge (giuridicamente intesa) la legge positiva e come ius lo ius positivo. Questa opinione pare legittimata anche da latre affermazioni fatte sempre alla Q. 90 : a) La legge è qualcosa che appartiene alla ragione (art.1) e ogni legge è ordinata al bene comune (art.2). b) Fare le leggi spetta o all’intero popolo, o alla persona pubblica che ha la cura di esso (art.3). c) La promulgazione è necessaria alla legge perché abbia vigore. La prima affermazione del punto a ci riconnette anche al diritto naturale e così alla legge eterna, già la seconda riconduce invece al diritto in quanto diritto positivo e questo fanno in modo ancora più esplicito le affermazioni degli altri punti. L’opinione sembra essere ulteriormente sostenuta anche dalla definizione di legge umana data nella Q. 91 dove Tommaso disamina le diverse leggi (eterna, naturale etc): la ragione umana dai precetti della legge naturale come da principi universali dispone delle cose in modo particolare, queste disposizioni particolari sono la legge umana. La legge naturale dà dunque dei semplici principi generali, dei criteri, mentre la normazione propria è quella del particolare, data dalla legge umana, dallo ius in quanto positivo. Tuttavia, se lo ius in quanto tale è tale appunto perché positivo, d’altra parte la qualità di iustum gli è conferita dalla partecipazione a quei principi generali propri del diritto naturale. Nella definizione di legge data dall’aquinate ciò è specificato dalla dicitura comando della ragione, in quanto questa è lo specifico dell’uomo, della sua natura. Dalla definizione data appare però che non basta semplicemente che la norma positiva sia ispirata dalla legge naturale come da un principio generale, occorre di più. E’ necessario infatti che il comando della norma positiva in quanto positiva sia finalizzato ad un fine positivo legittimo: il bene comune, ed infatti egli specifica: … il fine della legge umana è l’utilità degli uomini (Q. 95, art. 3). Dunque la norma positiva trae i suoi principi generali dal diritto naturale per normare il caso particolare e finalizzare il tutto al bene della comunità. San Tommaso esplicita questo doppio riferimento della legge positiva – da un lato legge eterna, naturale, Dio, dall’altro il bene degl’uomini – relazionandosi alle celebri tre condizioni della legge poste da Sant’Isidoro: 1) che la legge sia coerente con la religione (in quanto proporzionata alla legge divina). 2) Che la legge convenga alla disciplina (in quanto proporzionata alla legge naturale). 3) Che la legge sostenga il benessere degl’uomini (in quanto relativa all’utile degl’uomini). La legge deve dunque rispondere al bonum divinum ed al bonum humanum. L’uomo è moralmente obbligato ad osservare la legge che risponda ad entrambi i questi requisiti. L’obbligazione per San Tommaso non è tuttavia semplicemente morale ma positiva cioè coercitiva, e deve essere anzi normato e coercito positivamente anche il diritto naturale, perché Gl’uomini hanno in sé un appetito naturale alla virtù, è tuttavia necessario disciplinarli a ciò, anche a causa delle inclinazioni contrarie e dunque ricondurre eventualmente con la forza alla virtù. Sono dunque necessarie pene cogenti e la disciplina delle leggi per la pace degli uomini (Q. 95 art. 1). Sempre circa l’obbligatorietà, per l’aquinate, l’uomo può, e talvolta deve non osservare la legge che non risponda al bene comune, nel qual caso è da considerare alla stregua del comando di un bruto, mentre deve sempre non osservare la legge che va contro il bonum divinum. Questi concetti costituiscono anche la base del pensiero politico di San Tommaso, tanto nel De regimine principum quanto nel De regno. Nel De regimine si sofferma sulla necessità che nella società vi sia chi indirizzi rettamente la perché E’ necessario dunque che nella società vi sia un principio direttivo e nel De regno egli esplicita chiaramente: Se dunque una società di uomini liberi è ordinata da chi la governa al bene comune della società stessa, il governo sarà retto e giusto quale si conviene a uomini liberi. Se invece il governo, anziché al bene comune della società, è ordinato al bene privato del governante, avremo un governo ingiusto e perverso. Sono finalizzati al bene comune e perciò giusti la monarchia, l’aristocrazia e la politia, sono forme perverse la tirannide, l’oligarchia e la  ma democrazia. San Tommaso nega il tirannicidio, ma sostiene la resistenza passiva fino alla morte contro la legge che neghi il bonum divinum. Come si vede il diritto naturale si ricollega a quello positivo e questo alla concezione politica dello Stato.

francesco latteri scholten.

domenica 10 novembre 2013

Aristotele e San Tommaso d'Aquino: mai stati dogmatici (di contro alle loro scuole).



Come quella di ogni tempo, anche la cultura moderna ha spesso le sue lacune ed i suoi pregiudizi e perciò opera delle attribuzioni radicalmente false ed attribuisce ad altri ciò che magari invece già spettava agli antichi. E' quanto accade spesso ad es. con Aristotele uno dei ricercatori e sperimentatori più grandi tacciato spesso, a causa dei suoi seguaci di epoca successiva, di dogmatismo. Accade così che attribuiamo oggi, ad es, a Darwin concetti e teorie evoluzionistiche che invero furono già di Aristotele. E' stato infatti lo stagirita il vero fondatore della Embriologia e della Paleontologia, e, quando Alessandro Magno, di cui il nostro fu precettore, inviava i pionieri per le avanscoperte militari, lui gl'affiancava scienziati suoi collaboratori incaricati di studiare flora e fauna e reperti e riportarli. Dall' Embriologia e dalla Paleontologia, come oltre duemila anni dopo Charles Darwin, Aristotele ricaverà il concetto dell'evoluzione della Vita dalle forme più semplici a quelle più complesse, cosa che enuncerà tra l'altro nel suo celeberrimo "Perì Psyches" noto col titolo latino di "De Anima". Un testo fondamentale - e tutt'altro che antiquato come si vede - non solo per la Filosofia, in cui si riprende anche la nozione di tripartizione del sistema nervoso in vegetativo, sensitivo e razionale, anch'esso confermato dalla medicina contemporanea. Non un "dogmatico", neppure con la "d" minuscola, ma un grandissimo sperimentatore che mai avrebbe accettato di lasciarsi imbrigliare - e soprattutto di lasciare imbrigliare il proprio pensiero - da un dogma qualsivoglia e meno che mai religioso, tant'è che fu accusato, tra l'altro, di "irreligiosità", accusa gravissima all'epoca. Similmente San Tommaso d'Aquino, uno degli studiosi più autorevoli del Grande Maestro, e sicuramente il più importante della sua epoca. Mezzo italiano e mezzo tedesco nonché cugino dell'imperatore tedesco regnante all'epoca, Tommaso si accinse, sotto la guida del suo Maestro Sant'Alberto Magno, allo studio di Aristotele quando era ancora all'indice e lo fece sui testi arabi, gl'unici disponibili. In contrasto alle direttive della Chiesa di allora - ancora impegnata nelle crociate - tramite contatti con gl'arabi riuscì da loro a procurarsi i testi greci del Grande Antico. Li tradusse servendosi di un suo amico importante professore di greco: sono i primi testi delle opere di Aristotele finalmente di nuovo disponibili in Occidente. Il contatto con gl'arabi non fu per Tommaso semplicemente l'occasione del recupero di Aristotele e del confronto con lo stagirita, bensì quello, ben più vasto, con la cultura e la filosofia dei grandi Maestri Orientali, dal cui confronto originano anche direttamente dei lavori filosofici. Due fugure titaniche dunque caratterizzate da una estrema ampiezza di orizzonti e di vedute, con le quali la "Modernità" farebbe assai bene ad operare una riconsiderazione ed una radicale rivalutazione, non all'insegna - si capisce - di un conservatorismo fuori luogo, ma del più autentico progressismo: quello che fu loro proprio.

francesco latteri scholten.

venerdì 1 novembre 2013

Per l'Università pubblica sulle barricate con gli studenti anche loro: Tommaso e Sartre.


Era sulle barricate anche lui, con gli altri studenti, a combattere per la libertà di cultura, contro il privilegio di pochi. Contrariamente all'immagine che oggigiorno se ne ha, era tutt'altro che un dogmatico ed un conservatore: era un uomo di Spirito libero ed aperto, che studiava Aristotele quand'appena la Chiesa lo aveva tolto dall' "Indice", e lo studiava da un maestro - Alberto Magno - che non si era curato affatto che fosse all' "Indice". Era un ingegno vastissimo ed aperto alla vastità ed al confronto con tutti. Dobbiamo a lui e a quelli come lui - ad es. Bonaventura, suo contemporaneo - ed al loro impegno, alle loro lotte, di avere le Universitas. All'epoca non si distinguevano, come oggi, dalle "Scholae" per grado accademico, anche quest'ultime erano delle "Università". Le "Scholae" erano università private, non solo a numero chiuso, come oggi si direbbe, ma anche con rigidi criteri di ammissione non semplicemente culturali, ma, soprattutto, politico economici e religiosi. Le rette erano infatti cospicue e precludevano così lo studio ai più, inoltre per l'ammissione era richiesto un nulla osta tanto dell'autorità feudale che di quella ecclesiastica. Nelle città che all'epoca andavano estendendosi sorsero dunque delle nuove forme di "Scholae" - spesso sostenute anche da potenti di mentalità aperta, come l'imperatore Federico II ad es. per quella di Napoli - che si caratterizzavano per il fatto di essere aperte a tutti, senza vincoli economici, feudali o ecclesiali. Che si caratterizzassero cioé proprio per l' universalità, da qui il nome: Universitas. In sintonia con ciò anche la metodologia d'insegnamento e perciò la lezione. Non la lezione delle "Scholae", praticamente la lezione universitaria di oggi, con il professore "one singol man orchestra": lui se la canta e lui se la suona. Bensì la "Quaestio": un Baccelliere - assistente del Prof. - introduceva l'argomento illustrando le tesi a favore e quelle contrarie, quindi si teneva la "Disputatio" ed al termine il Magister - il Prof. - faceva il punto. Due volte l'anno poi, una a semestre, il tema della Quaestio era scelto liberamente e poteva riguardare qualsiasi argomento: ad quod libeta. L'opera di San Tommaso d'Aquino testimonia della bellezza di questa metodologia. La lotta fu aspra, e contro Tommaso e Bonaventura e l'Università pubblica che non si voleva e nella quale meno che mai si voleva insegnassero i frati, si scagliò addirittura tutto il clero secolare, guidato da Guglielmo di Saint Amour. Questi portò avanti accuse violentissime nella "De periculis novissimorum temporum" del 1255. Come si vede anche all'epoca i titoli erano quelli di oggi a testimonianza della pauperitudine di fantasia e della ristrettezza ed angustia mentale del conservatorismo sia dell'epoca che di oggi. Tommaso rispose con forza nella "Contra impugnantes Dei cultum et religionem". Dovette intervenire a più riprese il Papa stesso, Alessandro IV, ed ordinare ed imporre poi il rispetto di Tommaso e Bonaventura. L' Università in questione era la da poco istituita Università di Parigi, la "Sorbonne", all'epoca un fulcro di cultura progressista, oggi, ma già ai tempi di Sartre un covo di conservatori dogmatici. Sarà, piano piano lo spirito delle "Scholae" ad invadere la Sorbonne, mentre quello delle Universitas si sposterà altrove, in altre Università, ma soprattutto in altre istituzioni quali il celeberrimo "College de France". Da esse questo andrà all'arrembagio della Sorbonne come due secoli prima andò alla Bastiglia, simbolo dell' Ancienne Régime: ormai la celebre Università era del tutto una Schola. Ormai però, siamo nel maggio del 1968, non ci saranno più rappresentanti di nessun genere del mondo ecclesiastico a fianco degli studenti, neppure quelli dell' "Ordine dei Predicatori" come Tommaso o dell' "Ordine dei Mendicanti", come Bonaventura. Meno che mai un Papa prenderà posizione come fece Alessandro IV. Per quello che riguarda studenti e lavoratori anzi la maggioranza del mondo ecclesiastico pare persino quasi ignorare la "Rerum Novarum" di Leone XIII. Il clero contemporaneo sembra purtroppo quasi del tutto sulle linee di Gugliemo di Saint Amour e della "De periculis novissimorum temporum". Posizioni parallele - mutatis mutandis e considerata l'evoluzione dei tempi - a quelle che furono di Tommaso e di Bonaventura sono state sostenute invece da grandi laici come Jean Paul Sartre, il cui concetto di "Qualité" è del tutto assimilabile a quello tomista di "Habitus" con quanto ne consegue per l'etica, e come Michel Foucault, la cui interpretazione del soggetto - si veda ad es. "L'ermeneutica del soggetto" - è gravida di classicismo umanista. Entrambi però sono fortemente pregnati, specie Sartre, anche dalla cultura fenomenologica, e per entrambi l' "Intenzionalità" di fondo è volta al progresso ed ai diritti umani. La sopravvivenza dello Spirito delle Universitas, quello che ha dato il più grande contributo storico alla crescita non solo culturale e tecnica, ma anzitutto Spirituale, è dunque ormai interamente affidato alle mani dell'impegno laico, e, soprattutto purtroppo soltanto degli stessi studenti. Per loro, in mancanza di figure contemporanee valide, quelle mirabili, medioevali, quali quelle di Tommaso e Bonaventura, o del recentissimo passato come Sartre e Foucault possono essere un importante e significativissimo faro nell'oscurità e nelle nebbie della notte fonda contrassegnata dai vari Guglielmo di Saint Amour ecclesiastici e non di oggi.
francesco latteri scholten.

Il "Male" ne "Il Signore degli Anelli"



La fortunata saga de "Il Signore degli Anelli", costituita dalla trilogia "La compagnia dell' Anello", "Le due Torri" e "Il ritorno del Re", pubblicata tra il 1954 ed il 1955 e che Tolkien stesso dichiarò di aver scritta "per soddisfazione personale, spinto dalla scarsità della letteratura del genere che a me sarebbe piaciuto leggere", ha recentemente bissato il successo letterario con quello cinematografico, con milioni di spettatori in tutto il mondo, ed anche con quello critico, "Il ritorno del Re" avendo ottenuto ben 4 Oscar. Le dimensioni del successo hanno ovviamente spinto a studi e ricerche approfondite, tanto sull'opera quanto sull'autore. E' così inevitabilmente accaduto che - benché l'autore abbia volutamente com'egli stesso dichiarò "...tagliato qualsiasi allusione a cose tipo la religione oppure culti e pratiche, nel mio mondo immaginario" - la matrice della sua profonda fede cattolica erompa di fatto prepotentemente. Già Padre Gordon Murray, Gesuita, grande amico del professore di filologia di Oxford ed importante critico, osservava la presenza costante della concezione cristiana della "Grazia" e la vicinanza della figura femminile di Galadriel con quella della Madonna. Ciò è evidente con ancor maggiore chiarezza per quanto concerne la concezione del "Male" che riprende - a mio avviso - addirittura sin nel dettaglio quella tomista. "Il "Male", propriamente parlando non è nulla; esso è molto più una mancanza di essere che un essere." Così la sintesi della concezione tomista di Male in Etienne Gilson, uno degli studiosi più autorevoli di San Tommaso d'Aquino. E così è ne "Il Signore degli Anelli", dove, tramite la possessione, il Male coincide anzitutto con la perdita di sé, della propria personalità, del proprio "io", ed il suo accrescimento porta addirittura alla perdita della propria persona fisica, gl'esseri più posseduti, i nove cavalieri dell' "Anello" ad es. ne sono privi, come ne è privo Sauron, l' ex essere più saggio e luminoso che il Male ha corrotto e reso il Signore dell'oscurità. La simiglianza con il personaggio cristiano arcangelico di Lucifero non può qui sfuggire. Si è in perfetta sintonia con l'affermazione di Tommaso alla Quaestio I del "De Malo": "...si dice male ciò che si oppone al bene; onde bisogna che il male sia ciò che si oppone all'appetibile in quanto tale. Ma è impossibile che ciò sia qualcosa." Il Male, come proprio questi esseri testimoniano, è mancanza di ordine al fine proprio liberamente voluta da una creatura razionale, Summa Theol. I, Q.48, art.6. "Ma il Male, in quanto tale, non può essere perseguito, né in qualche modo voluto o desiderato, perché l'essere desiderabile ha natura di bene, a cui si oppone il male in quanto tale. Onde vediamo che nessuno compie un male se non mirando a qualche bene, come gli sembra, per esempio all'adultero il bene sembra consistere nel fruire di un piacere sensibile e, per questo motivo, commette adulterio" "De Malo" Q I, art.3. Ma così, in tutte le nature razionali può esistere e di fatto esiste il Male e soprattutto la lotta tra il Bene ed il Male, di cui la coscienza singola è il campo di battaglia. Ma anche questo è quanto si osserva in tutti i personaggi del "Signore degli Anelli" nessuno escluso: da Frodo a Gandalf, a Gambasso. L'agire è un tendere verso l'uno o l'altro dei due poli, un agire che crea un "habitus", un tendere, un rafforzamento al tendere verso l'uno o l'altro, una assuefazione. Ma qui siamo di nuovo tanto in Tommaso, quanto nella celeberrima saga. Nessuno è escluso da questa lotta intrinseca e radicale, sempre assai forte, ed in essa si misura la forza spirituale dei soggetti. Essa può portare alla scissione radicale dell' "io" stesso, di cui testimonia Gollum, sempre in dibattito interiore con il proprio alter ego. Ma su Gollum Tolkien mette in bocca a Gandalf il savio le parole: "... non bisogna ucciderlo perché non c'è qualcuno che sia totalmente cattivo e penso che anche lui avrà ancora un ruolo in questa storia...". L'eco bibblico "nessuno tocchi Caino" è presente, ma di più Tommaso, cui la citazione stessa di Tolkien sembra presa: "Non esiste un male che corrompa totalmente il bene; poiché almeno il soggetto in cui il male risiede è un bene."

francesco latteri scholten.


P.S. Tra i testi critici sulla religiosità di Tolkien e de "Il Signore degli Anelli" recentemente pubblicati segnalo: "La spiritualità del Signore degli Anelli" di Irene Fernandez; "Il fuoco segreto"  di Stratford Caldecott; "Tra San Francesco e Tolkien" di Guglielmo Spirito e "L'Anello e la Croce" di Andrea Monda.