Quest'anno
ricorrono i 50 anni dalla pubblicazione – era il 25 luglio del 1968
– dell'Enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI, che, come i più
sapranno, condensa, nei suoi 31, brevi capitoli, una magistrale ed
insuperata sintesi degli insegnamenti morali della Chiesa Cattolica
su temi che vanno dalla pratica della castità coniugale, da
iscriversi sapientemente nel quadro di una mutua relazione di grazia
che ha origine e fondamento nel vincolo sacramentale del matrimonio,
all'esercizio responsabile e libero della genitorialità, nella cui
trasparenza cogliere la ratio prima ed ultima delle dinamiche
sessuali di coppia; dalla liceità del ricorso ai metodi di
regolazione naturale della fertilità, resi oggetto di un giudizio
informato ad una concezione antropologica che fonda da sempre il
magistero universale ordinario della Chiesa in materia morale, agli
effetti molteplici, crescenti, per molti versi esiziali, legati al
diffondersi su scala globale di una mentalità contraccettiva. Si
sarebbe portati a dimostrare la verità degli insegnamenti contenuti,
in ordine a detti temi, in questa Enciclica muovendo esclusivamente
dall'analisi storica delle reazioni che essa fin dall'origine ha
generato. A dire che, se da sempre la Chiesa è stata chiamata ad
essere “segno di contraddizione” agli occhi di popoli e di ere
accecati da un attaccamento idolatrico alla cose ed alla mentalità
del mondo, l'eroicità inconcussa del μάρτυς, del testimonio
immarcescibile, è esattamente ciò che si può cogliere guardando al
travaglio intimo e, al contempo, alla serena e lucida fermezza
conservata, nel tempestoso iter che portò all'elaborazione prima e
alla
promulgazione poi dell'Humanae Vitae, da parte di Paolo VI.
Detto iter ebbe inizio nel 1963, quando Giovanni XXIII decise di
istituire una "Commissione pontificia per lo studio della
popolazione, della famiglia e della natalità", col compito di
ricercare e proporre soluzioni circa la possibile conciliazione
dottrinale tra la morale tradizionale cattolica in materia sessualità
coniugale e le tecniche di regolazione delle nascite. La vulgata
neomaltusiana, particolarmente in voga all'epoca – siamo alle
soglie del '68, del decennio cioè che avrebbe rivoluzionato, su
scala globale, costumi, abitudini e forma mentis di intere
generazioni– aveva permeato potentemente le agende e la
comunicazione istituzionale dell'ONU e di altre organizzazione non
governative come l'International Planned Parenthood Federation,
veicolando il consunto, allarmistico proclama circa la crescita
esponenziale e fuori controllo della popolazione, e agitando lo
spauracchio di sempre, l'incapacità del pianeta di rigenerarsi e
garantire una copertura alimentare per tutti. Da qui l'interesse
anche da parte del Papa e delle gerarchie vaticane per questi temi,
che si sarebbe sostanziato nella creazione della Commissione già
menzionata, voluta da Giovanni XXIII. Lo studio operato da parte di
questa sarebbe proseguito fino al 1966 quando la Commissione
consegnava l’esito dei lavori, che veniva tuttavia secretato in
attesa delle decisioni di Paolo VI, nel frattempo assurto al soglio
pontificio. Ma, prima di conoscere il parere del Pontefice,
nell’aprile del 1967, venivano riportati sulle principali testate
internazionali i risultati delle votazioni finali avvenute in senso
alla medesima Commissione. Si racconta dell'esistenza di due pareri
contrastanti, uno favorevole al riconoscimento della liceità morale
della "pillola contraccettiva", approvato con 70 voti, e
uno contrario, approvato con soli 4 voti, versione tuttavia mai
confermata ufficialmente. Paolo VI, allora decise di giocare un'altra
mossa, che sarebbe stata decisiva e dirimente. Incaricava prima la
Congregazione della dottrina della fede, che avrebbe lavorato al
testo dal giugno del ’66 fino alla fine del ’67, e poi la
Segreteria di Stato, che invece avrebbe operato sullo stesso fino
alla metà del ’68. L'obiettivo era quello di
approfondire il caso,
ascoltando il parere autorevole di nuovi esperti: il materiale
complessivamente raccolto sarebbe alla fine servito a Paolo VI per
scrivere e pubblicare l'Humanae vitae. L'Enciclica si apre accennando
ad un nodo cardine dell'articolata e sistematica riflessione condotta
da Paolo VI, quello cioè relativo al «gravissimo dovere di
trasmettere la vita umana, per il quale gli sposi sono liberi e
responsabili collaboratori di Dio creatore» (Humanae Vitae, n. 1),
aspetto che fin da subito viene posto in connessione con una serie di
nuove, urgenti questioni che l'evolversi della società ha generato e
che «la Chiesa non può ignorare» (Ibidem). Tali urgenze, a detta
del Pontefice, attengono: 1) alla rapidità dello sviluppo
demografico che porta con sé tentazioni di controllo biopolitico
della crescita delle popolazioni da parte dei governi nazionali e
degli organismi internazionali; 2) all'accresciuta esigenza di
regolare le nascite all'interno dei singoli nuclei familiari, col
fine di garantire condizioni di vita migliori alle nuove generazioni;
3) agli scenari inediti venuti a configurarsi in seguito ai nuovi
ruoli sociali riconosciuti alle donne e alla mutata considerazione
culturale delle stesse che ne è derivata; 4) alla straordinaria
ampiezza e profondità dei progressi compiuti dall'uomo quanto al
dominio razionale ed organizzazionale delle forze della natura, per
mezzo dell'ausilio della tecnica. A fronte di tali, epocali sfide si
facevano sempre più pressanti le domande volte a questionare la
validità di norme morali la cui efficacia pareva messa in
discussione dall'accresciuta difficoltà a garantirne, nei mutati
contesti culturali e sociali, una reale osservanza, «dato
l'accresciuto senso di responsabilità dell'uomo moderno, [che induce
a chiedersi se] non sia venuto il momento di affidare alla sua
ragione e alla sua volontà, più che ai ritmi biologici del suo
organismo, il compito di trasmettere la vita» (HV, n. 2). Domande,
quindi, che, come si può facilmente intuire, mettevano in dubbio la
validità della stessa «dottrina morale del matrimonio, dottrina
fondata sulla legge naturale e arricchita dalla rivelazione divina»
(HV, n. 3). Solo nella profondità di tale respiro metafisico, si può
dare infatti contezza piena della valenza soprannaturale del
matrimonio
cristiano, «sapientemente e provvidenzialmente istituito
da Dio creatore per realizzare nell'umanità il suo disegno di amore.
Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed
esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con
la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla
generazione ed educazione di nuove vite» (HV, n. 8. Vengono,
all'interno di questi passi ispirati, sapientemente condensati i
gangli della dottrina cristiana sul matrimonio, la cui singolare
importanza, nell'economia complessiva degli strumenti di
santificazione e salvezza messi a disposizione dell'uomo, si evince
oltre che dal numero e dall'ampiezza dei passi biblici che ad esso
espressamente si riferiscono, anche dal fatto che Cristo stesso lo
avrebbe innalzato alla dignità di sacramento, ovvero di segno
tangibile, efficace ed immanente della sua Grazia trascendente e
salvifica, che la Chiesa è chiamata a dispensare per mezzo di
ministri le cui funzioni, in questa specialissima fattispecie,
vengono assolte dagli stessi nubendi. Ora, la finalità
costitutivamente propria dell'espressione corporea della loro
sessualità, è data dalla fecondità potenziale di un atto di amore
che è strutturalmente aperto all'esistenza di chi non è ancora,
alla generazione cioè di una nuova vita. L'apertura alla
procreazione è cioè una componente intenzionale coessenziale
dell'atto coniugale, dal momento che la stessa unione genitale degli
sposi è finalizzata intrinsecamente alla comunicazione della vita,
come donazione integrale e reciproca che gli stessi sono chiamati ad
attuare. A dire che l'unione carnale dei coniugi non è mai un
incontro situabile solo a livello biologico, perché la sua fecondità
simbolica permane immutata a prescindere dall'effettivo avvio di un
processo fisiologico che porterà alla generazione di una nuova vita.
La procreazione responsabile è, piuttosto, deliberata apertura alla
vita da parte dei coniugi che si donano nella loro totalità e
proseguono questa donazione d'amore prolungandone gli effetti
nell'assolvimento congiunto del compito educativo. Portato fuori dal
contesto dell'amore coniugale,
pertanto, l'atto riproduttivo smarrisce la sua dignità di atto nel quale gli sposi cooperano al disegno di Dio nella creazione di una nuova vita, perde cioè la sua profondità e consistenza propriamente sponsale. La mediazione corporea, infatti, interrompe il nesso di causalità tra decisione procreativa e nascita di una nuova vita e apre simbolicamente al mistero di una vita “altra” rispetto a quella dei genitori, alterità che, a prescindere dalla sola concatenzione biologica degli eventi unitivi, è insieme indice e cifra della sua dignità singolare, ineludibile e irripetibile, in una parola della sua dignità personale. E solo in una prospettiva personalista siffatta possiamo finalmente cogliere la fisionomia originaria e propria dell'atto coniugale. È questo il significato profondo che emerge dal tessuto argomentativo dell'Humane Vitae, confermato, tra l'altro, nella pienezza della sua valenza dottrinale, dalla Familiaris Consortio: tra i due significati dell'atto coniugale, unitivo e procreativo, vi è una implicazione reciproca, nel senso che l'unità tra i coniugi sarà piena solo se vi sarà una contestuale disponibilità ad accogliere una nuova vita: «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all'altissima vocazione alla paternità» (HV, n. 12). Innestare il contributo unitivo dei coniugi in una progettualità che li comprende e li supera infinitamente, significa far propria quella concezione che vede il figlio come un dono, la determinazione delle cui fattezze, non solo somatiche, mai potrà dirsi nella disponibilità esclusiva dei genitori, che dunque sono una volte per tutte chiamati ad uscire dalla logica dell'attuazione di un “progetto generativo”, attraverso il quale poter dare concretezza ai loro deliberati desideri procreativi. La paternità responsabile non è infatti attuazione rigida e fredda di un'attività programmatica –come accade, ad esempio, nella messa in atto di un progetto procreativo che domandi l'ausilio delle tecnica in fase di fecondazione, sia essa omologa od eterologa– ma è piuttosto l'assenso prestato ad un compito che chiede “cor-responsabiltà”: la scelta di avere un figlio non è mai solo una conseguenza esclusiva e diretta
della decisione generativa dei coniugi, ma quando si affida alla mediazione dell'unione corporea propria dell'atto coniugale, accetta di sostanziarsi in una forma di adesione ad un progetto previo, ad un precedente disegno nel quale i coniugi scelgono di entrare liberamente, ma il cui contributo non esaurisce completamente. È in questo senso allora che ogni tentativo messo in campo dai coniugi con il fine specifico di alterare l'incedere fisiologicamente proprio di un processo generativo, non può non esser visto come un'interferenza indebita nei dinamismi attuativi di una simile progettualità trascendente: è da escludersi dunque la liceità morale di qualsiasi azione che, «o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione» (HV, n. 14). La fisiologica potenzialità procreativa dell’unione coniugale è un bene così intimamente radicato nei dinamismi di coppia e nella natura amorosa dei suoi rapporti che, pur in presenza di altri requisiti dell’amore coniugale, il suo impedimento contraccettivo non può essere ottenuto senza una simultanea ferita alla dignità delle loro persone e all’integrità dei significati oblativo e unitivo del rapporto, integrità che, sola, lo rende autenticamente umano. Nella sua originaria “verità”, infatti, la sessualità sponsale parla il linguaggio della reciproca donazione e dell'accoglienza totale (“io mi dono totalmente a te e ti accolgo totalmente”), mentre nel dispiegarsi dell'artificio contraccettivo viene costretta parlare un linguaggio ad essa estraneo, il linguaggio delle reciproca negazione (“non mi dono totalmente e non ti accolgo totalmente”). Il riconoscimento auto-osservativo della fertilità femminile, ciclicamente ricorrente, è che alle coppie desiderose di avere un figlio rende possibile lo svolgimento mirato della sessualità nel periodo fertile del ciclo e alle coppie bisognose, per gravi ed ineludibili ragioni, di dovervi rinunciare, mediante il suo svolgimento elettivo nei periodi fisiologicamente non fertili della donna, rende possibile la salvaguardia della pienezza dei loro atti coniugali, che sarebbe viceversa violata dal ricorso alle pratiche contraccettive. Un esercizio rispettoso della propria e altrui fertilità, da parte di ogni coniuge, all'interno di ogni singolo atto coniugale, realizza la virtù della castità sponsale, disposizione morale capace di richiamare i protagonisti all'esercizio congiunto di tutte le virtù veramente necessarie alla vita matrimoniale colta nel suo insieme, oggi radicalmente messa in discussione
tanto dal ricorso sfrenato ad una sessualità di coppia che ha sempre più i tratti della megalomania pornografica, quanto dal ricorso alle tecniche di manipolazioni non terapeutiche della fisiologia procreativa. La pratica dell'astensione dalla sessualità tra i coniugi nei periodi fecondi, in nessun caso può essere assimilata alla decisione di una sessualità deliberatamente deprivata della sua connaturale apertura alla vita: vero è che in entrambi i casi i coniugi perseguono l'obiettivo di evitare una gravidanza, ma solo nel primo, la gravità obiettiva dei motivi che si accompagna a tale scelta domanda che essa si sostanzi nell'astensione completa dai rapporti nei periodi fecondi, per continuare a fruire, nei periodi ciclicamente infertili, di quella che costituisce una componente intimamente necessaria alle dinamiche dell'amore coniugale, l'esercizio responsabile e rispettoso della sessualità appunto. Nel caso del ricorso alle metodiche contraccettive, invece, in nessun momento vengono considerate le esigenze: 1) della continenza periodica, da iscriversi nel più ampio quadro della castità coniugale; 2) dell'astensione dal ricorso ad un uso strumentale della medesima componente sessuale; 3) della rinuncia ad interferire nell'incedere fisiologico delle naturali dinamiche delle sessualità coniugale, aspetti tutti che, al contrario, nella pratica dell'astensione dai rapporti matrimoniali nei periodi fertili, vengono pedissequamente osservati ed onorati. È per questo che «i due casi differiscono profondamente tra di loro: nel primo i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell'altro caso impediscono lo svolgimento dei processi naturali» (HV, n. 16). Parlare allora dei beni della castità, matrimoniale e non, della indisgiungibilità del momento unitivo e procreativo dell'atto sessuale coniugale, della regolazione naturale della fertilità di coppia, come di virtù morali naturali, significa leggerne l'essenza alla luce non solo della ragione pratica che, illuminata dalla fede, può coglierne il senso autentico, ma anche appurarne il loro essere naturalmente preordinate a favorire lo sviluppo umano integrale di ogni persona, così come il dispiegarsi in pienezza della donatività reciproca ed incondizionata sottesa all'esistenza del vincolo sponsale, beni che sono tali agli occhi di ogni ragione che voglia dirsi tale, che non voglia cioè ingannarsi deliberatamente. Uno stile di vita coniugale ispirato
ad un simile esercizio virtuoso della sessualità sponsale non solo agevola l’edificazione serena e fruttuosa della primordiale cellula di ogni società umana, qual è la famiglia nucleare, ma fa sì anche che i suoi benefici effetti si estendano agli altri ambiti della vita di relazione, propiziando la realizzazione di un altro sogno vagheggiato dalla visionarietà profetica di Paolo VI, quello dell'instaurazione di una “civiltà dell'amore” che sola potrà rendere la città terrena ad immagine di quella celeste. L'eclissi lenta, progressiva, inesorabile di una cultura della sessualità coniugale ultimamente fondata sull'antropologia cristiana della castità sponsale, i cui tratti precipui abbiamo cercato di sbozzare fin qui, ha prodotto la diffusione, ormai su scala globale, della cosiddetta “mentalità contraccettiva”, intendendosi, con questa locuzione, un modello culturale che ha realizzato una serie interminabile di esiziali effetti a catena, che vanno dall'aborto alla banalizzazione della sessualità con conseguenti ricadute sulla moralità dei singoli come delle collettività nel loro insieme; dalle violenze a sfondo sessuale alla strumentalizzazione della donna; dalla pornografia all'adozione sempre più massiccia di soluzioni biopolitiche di controllo delle nascite; dalle distruzione dell'unione matrimoniale e della famiglia, con conseguente aumento del numero dei divorzi ai casi di marginalizzazione sociale delle fasce più deboli. Tutto questo dimostra inequivocabilmente come l'inquietudine di Paolo VI, la sua insonne ansia di sventare la minaccia dell'irrompere sulla scena sociale mondiale di una mentalità siffatta, al costo pure di tante sofferenze, umiliazioni, incomprensioni, era nient'altro che la mesta prefigurazione, il triste presagio di una rivoluzione antropologica che di lì a poco avrebbe subdolamente offerto a generazioni e popoli i suoi ingannevoli frutti di distruzione e di morte. Da qui la sua profetica insistenza sull'integrità ed integralità del messaggio che la Chiesa doveva continuare a trasmettere, senza lasciarsi influenzare dal carattere radicale e polemico della montatura mediatica che di lì a poco l'avrebbe investita, ma anzi ribadendo che la sua vocazione ad essere “segno di contraddizione”, e dunque non cessando per un istante dalla sua missione «di proclamare con serena fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica. Di essa la Chiesa non è stata autrice, né può quindi esserne arbitra; ne è soltanto depositaria ed interprete», e come tale essa sola è in diritto di reclamare il suo ruolo di sempre, quello di «amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare, fin dal loro itinerario terrestre, “a partecipare come figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”» (HV, n. 18).
pertanto, l'atto riproduttivo smarrisce la sua dignità di atto nel quale gli sposi cooperano al disegno di Dio nella creazione di una nuova vita, perde cioè la sua profondità e consistenza propriamente sponsale. La mediazione corporea, infatti, interrompe il nesso di causalità tra decisione procreativa e nascita di una nuova vita e apre simbolicamente al mistero di una vita “altra” rispetto a quella dei genitori, alterità che, a prescindere dalla sola concatenzione biologica degli eventi unitivi, è insieme indice e cifra della sua dignità singolare, ineludibile e irripetibile, in una parola della sua dignità personale. E solo in una prospettiva personalista siffatta possiamo finalmente cogliere la fisionomia originaria e propria dell'atto coniugale. È questo il significato profondo che emerge dal tessuto argomentativo dell'Humane Vitae, confermato, tra l'altro, nella pienezza della sua valenza dottrinale, dalla Familiaris Consortio: tra i due significati dell'atto coniugale, unitivo e procreativo, vi è una implicazione reciproca, nel senso che l'unità tra i coniugi sarà piena solo se vi sarà una contestuale disponibilità ad accogliere una nuova vita: «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso mutuo e vero amore ed il suo ordinamento all'altissima vocazione alla paternità» (HV, n. 12). Innestare il contributo unitivo dei coniugi in una progettualità che li comprende e li supera infinitamente, significa far propria quella concezione che vede il figlio come un dono, la determinazione delle cui fattezze, non solo somatiche, mai potrà dirsi nella disponibilità esclusiva dei genitori, che dunque sono una volte per tutte chiamati ad uscire dalla logica dell'attuazione di un “progetto generativo”, attraverso il quale poter dare concretezza ai loro deliberati desideri procreativi. La paternità responsabile non è infatti attuazione rigida e fredda di un'attività programmatica –come accade, ad esempio, nella messa in atto di un progetto procreativo che domandi l'ausilio delle tecnica in fase di fecondazione, sia essa omologa od eterologa– ma è piuttosto l'assenso prestato ad un compito che chiede “cor-responsabiltà”: la scelta di avere un figlio non è mai solo una conseguenza esclusiva e diretta
della decisione generativa dei coniugi, ma quando si affida alla mediazione dell'unione corporea propria dell'atto coniugale, accetta di sostanziarsi in una forma di adesione ad un progetto previo, ad un precedente disegno nel quale i coniugi scelgono di entrare liberamente, ma il cui contributo non esaurisce completamente. È in questo senso allora che ogni tentativo messo in campo dai coniugi con il fine specifico di alterare l'incedere fisiologicamente proprio di un processo generativo, non può non esser visto come un'interferenza indebita nei dinamismi attuativi di una simile progettualità trascendente: è da escludersi dunque la liceità morale di qualsiasi azione che, «o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione» (HV, n. 14). La fisiologica potenzialità procreativa dell’unione coniugale è un bene così intimamente radicato nei dinamismi di coppia e nella natura amorosa dei suoi rapporti che, pur in presenza di altri requisiti dell’amore coniugale, il suo impedimento contraccettivo non può essere ottenuto senza una simultanea ferita alla dignità delle loro persone e all’integrità dei significati oblativo e unitivo del rapporto, integrità che, sola, lo rende autenticamente umano. Nella sua originaria “verità”, infatti, la sessualità sponsale parla il linguaggio della reciproca donazione e dell'accoglienza totale (“io mi dono totalmente a te e ti accolgo totalmente”), mentre nel dispiegarsi dell'artificio contraccettivo viene costretta parlare un linguaggio ad essa estraneo, il linguaggio delle reciproca negazione (“non mi dono totalmente e non ti accolgo totalmente”). Il riconoscimento auto-osservativo della fertilità femminile, ciclicamente ricorrente, è che alle coppie desiderose di avere un figlio rende possibile lo svolgimento mirato della sessualità nel periodo fertile del ciclo e alle coppie bisognose, per gravi ed ineludibili ragioni, di dovervi rinunciare, mediante il suo svolgimento elettivo nei periodi fisiologicamente non fertili della donna, rende possibile la salvaguardia della pienezza dei loro atti coniugali, che sarebbe viceversa violata dal ricorso alle pratiche contraccettive. Un esercizio rispettoso della propria e altrui fertilità, da parte di ogni coniuge, all'interno di ogni singolo atto coniugale, realizza la virtù della castità sponsale, disposizione morale capace di richiamare i protagonisti all'esercizio congiunto di tutte le virtù veramente necessarie alla vita matrimoniale colta nel suo insieme, oggi radicalmente messa in discussione
tanto dal ricorso sfrenato ad una sessualità di coppia che ha sempre più i tratti della megalomania pornografica, quanto dal ricorso alle tecniche di manipolazioni non terapeutiche della fisiologia procreativa. La pratica dell'astensione dalla sessualità tra i coniugi nei periodi fecondi, in nessun caso può essere assimilata alla decisione di una sessualità deliberatamente deprivata della sua connaturale apertura alla vita: vero è che in entrambi i casi i coniugi perseguono l'obiettivo di evitare una gravidanza, ma solo nel primo, la gravità obiettiva dei motivi che si accompagna a tale scelta domanda che essa si sostanzi nell'astensione completa dai rapporti nei periodi fecondi, per continuare a fruire, nei periodi ciclicamente infertili, di quella che costituisce una componente intimamente necessaria alle dinamiche dell'amore coniugale, l'esercizio responsabile e rispettoso della sessualità appunto. Nel caso del ricorso alle metodiche contraccettive, invece, in nessun momento vengono considerate le esigenze: 1) della continenza periodica, da iscriversi nel più ampio quadro della castità coniugale; 2) dell'astensione dal ricorso ad un uso strumentale della medesima componente sessuale; 3) della rinuncia ad interferire nell'incedere fisiologico delle naturali dinamiche delle sessualità coniugale, aspetti tutti che, al contrario, nella pratica dell'astensione dai rapporti matrimoniali nei periodi fertili, vengono pedissequamente osservati ed onorati. È per questo che «i due casi differiscono profondamente tra di loro: nel primo i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell'altro caso impediscono lo svolgimento dei processi naturali» (HV, n. 16). Parlare allora dei beni della castità, matrimoniale e non, della indisgiungibilità del momento unitivo e procreativo dell'atto sessuale coniugale, della regolazione naturale della fertilità di coppia, come di virtù morali naturali, significa leggerne l'essenza alla luce non solo della ragione pratica che, illuminata dalla fede, può coglierne il senso autentico, ma anche appurarne il loro essere naturalmente preordinate a favorire lo sviluppo umano integrale di ogni persona, così come il dispiegarsi in pienezza della donatività reciproca ed incondizionata sottesa all'esistenza del vincolo sponsale, beni che sono tali agli occhi di ogni ragione che voglia dirsi tale, che non voglia cioè ingannarsi deliberatamente. Uno stile di vita coniugale ispirato
ad un simile esercizio virtuoso della sessualità sponsale non solo agevola l’edificazione serena e fruttuosa della primordiale cellula di ogni società umana, qual è la famiglia nucleare, ma fa sì anche che i suoi benefici effetti si estendano agli altri ambiti della vita di relazione, propiziando la realizzazione di un altro sogno vagheggiato dalla visionarietà profetica di Paolo VI, quello dell'instaurazione di una “civiltà dell'amore” che sola potrà rendere la città terrena ad immagine di quella celeste. L'eclissi lenta, progressiva, inesorabile di una cultura della sessualità coniugale ultimamente fondata sull'antropologia cristiana della castità sponsale, i cui tratti precipui abbiamo cercato di sbozzare fin qui, ha prodotto la diffusione, ormai su scala globale, della cosiddetta “mentalità contraccettiva”, intendendosi, con questa locuzione, un modello culturale che ha realizzato una serie interminabile di esiziali effetti a catena, che vanno dall'aborto alla banalizzazione della sessualità con conseguenti ricadute sulla moralità dei singoli come delle collettività nel loro insieme; dalle violenze a sfondo sessuale alla strumentalizzazione della donna; dalla pornografia all'adozione sempre più massiccia di soluzioni biopolitiche di controllo delle nascite; dalle distruzione dell'unione matrimoniale e della famiglia, con conseguente aumento del numero dei divorzi ai casi di marginalizzazione sociale delle fasce più deboli. Tutto questo dimostra inequivocabilmente come l'inquietudine di Paolo VI, la sua insonne ansia di sventare la minaccia dell'irrompere sulla scena sociale mondiale di una mentalità siffatta, al costo pure di tante sofferenze, umiliazioni, incomprensioni, era nient'altro che la mesta prefigurazione, il triste presagio di una rivoluzione antropologica che di lì a poco avrebbe subdolamente offerto a generazioni e popoli i suoi ingannevoli frutti di distruzione e di morte. Da qui la sua profetica insistenza sull'integrità ed integralità del messaggio che la Chiesa doveva continuare a trasmettere, senza lasciarsi influenzare dal carattere radicale e polemico della montatura mediatica che di lì a poco l'avrebbe investita, ma anzi ribadendo che la sua vocazione ad essere “segno di contraddizione”, e dunque non cessando per un istante dalla sua missione «di proclamare con serena fermezza tutta la legge morale, sia naturale che evangelica. Di essa la Chiesa non è stata autrice, né può quindi esserne arbitra; ne è soltanto depositaria ed interprete», e come tale essa sola è in diritto di reclamare il suo ruolo di sempre, quello di «amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare, fin dal loro itinerario terrestre, “a partecipare come figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”» (HV, n. 18).
Antonio
Casciano, Elio Card. Sgreccia.
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