Di francesco latteri scholten
E'
l'opera alla quale è indissolubilmente legato il nome di San Tommaso
d'Aquino, composta a partire dal 1265, ispirata alla “Summa
contra Gentiles”
di cui lascia il carattere apologetico e l'approfondimento filosofico
per una trattazione semplificata e più vasta, è rimasta incompiuta
per il sopraggiungere della morte dell'Angelico. Si rivolge agli
studenti che iniziano i corsi universitari di teologia ed ha la
struttura classica delle “Lectio”,
ovvero delle lezioni universitarie dell'epoca: una breve introduzione
ad opera di un “Baccelliere”
(ovvero assistente del professore), un dibattito sulle argomentazioni
a favore o contrarie, il “Responsio”
del “Magister”
(ovvero le conclusioni del professore). La Somma Teologica si
contraddistingue anzitutto per una novità assoluta sul piano
filosofico/teologico ovvero la “dimostrazione scientifica”
dell'esistenza di Dio tramite le “cinque vie” che distingue San
Tommaso ad es. da Sant'Anselmo, e per la concezione dell'Incarnazione
che già Duns Scoto, l' “antagonista” di Tommaso aveva definito
come il fine ultimo della Creazione. Finalità e suddivisione
dell'opera sono illustrate con chiarezza dall'aquinate nel “Proemio”
della prima Quaestio:
“Lo
scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio,
e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine
delle cose, e specialmente della creatura ragionevole, come appare
dal già detto; nell'intento di esporre questa dottrina, noi
tratteremo: I - di Dio (I Parte); II - del movimento della creatura
razionale verso Dio (II Parte, divisa in I-II e II-II); III - del
Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio
(III Parte).”
I Parte: Dio
La
suddivisione della trattazione di Dio è svolta, sempre nel “Proemio”
della prima Quaestio:
“L'indagine
intorno a Dio comprenderà tre parti. Considereremo: primo, le
questioni spettanti alla divina Essenza; secondo, quelle riguardanti
la distinzione delle Persone; terzo, quelle che riguardano la
derivazione delle creature da Dio.
Intorno all'Essenza divina poi
dobbiamo considerare:
1. Se Dio esista;
2. Come egli sia o
meglio come non sia;
3. Dobbiamo studiare le cose spettanti alla
sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la potenza.
Sul
primo membro di questa divisione si pongono tre quesiti:
Se
sia per sé evidente che Dio esista;
Se
sia dimostrabile;
Se
Dio esista.”
Prima
di passare all' “An
Deus existit”
è opportuno soffermarci sulla questione della evidenza di questa
esistenza ed in particolare alla conclusione:
“...Dico
dunque che questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé
evidente, perché il predicato s'identifica col soggetto; Dio
infatti, come vedremo in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome
noi ignoriamo l'essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita
di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più
note, ancorché di per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli
effetti.”
Ecco
allora il perché della necessità della dimostrazione dell' “an
Deus existit”,
ovvero se Dio esista con le celebri “cinque
vie”
trattata nel terzo articolo della seconda Quaestio:
“RISPONDO:
Che Dio esista si può provare per cinque vie. La
prima e la più evidente è quella che si desume dal moto.
È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose
si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro.
Infatti, niente si trasmuta che non sia potenziale rispetto al
termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto.
Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla
potenza all'atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all'atto
se non mediante un essere che è già in atto. P. es., il fuoco che è
caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo
soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è
possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso
aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi
rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme
caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque
impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo
stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque
necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro. Se
dunque l'essere che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna
che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non
si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi
sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché
i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo
motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla
mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia
mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La
seconda via parte dalla nozione di causa efficiente.
Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause
efficienti, ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia
causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se
stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle cause
efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti
concatenate la prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è
causa dell'ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora,
eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine
delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe
neppure l'ultima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle
cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e
così non avremo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie:
ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima
causa efficiente, che tutti chiamano Dio.
La terza via è presa dal possibile (o contingente) e dal necessario,
ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono
essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che
vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che
tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può
non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti
in natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento
niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non
esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad
esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente
alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e
così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso.
Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella
realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è
necessario, o ha la causa della sua necessità in altro essere oppure
no. D'altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa
della loro necessità, non si può procedere all'infinito, come
neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque
bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé
necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa
di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio. La
quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose.
È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e
altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado
maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che esse
si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto;
così più caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente
caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e
nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente;
perché, come dice Aristotele, ciò che è massimo in quanto vero, è
tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato
genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il
fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il
medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti
è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E
questo chiamiamo Dio. La
quinta via si desume dal governo delle cose.
Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè
i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse
operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la
perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione
raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non
tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e
intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche
essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a
un fine: e quest'essere chiamiamo Dio.”
Tommaso
dunque pone delle nuove pietre miliari,
come anche dei punti di "fine" e di "nuovo inizio"
nella Teologia. In particolare egli pone fine a quello che era stato
sino ad allora uno dei punti fermi più saldi, specie con l'argomento
di Sant'Anselmo,
di Dio quale esistente perché massimo ente pensabile: quello della
evidenza dell'esistenza di Dio. San Tommaso sostiene invece
esattamente ciò che poi sosterrà l'ateismo
moderno,
ossia che l'esistenza
di Dio non sia di per sé evidente.
Per l'aquinate infatti l'essere e l'essenza di Dio coincidono, ma
a noi non è dato conoscere l'essenza di Dio -
Summa Theol, I, Q2 a1 - in quanto alla nostra conoscenza giunge solo
ciò che è direttamente mediato dai sensi. Ovvero, abbiamo
conoscenza anzitutto della materia
e della materialità:
di nuovo esattamente ciò che sostiene l'ateismo moderno. In altri
termini: Tommaso sta a tutta la teologia precedente ed a quella a lui
contemporanea come Marx
sta ad Hegel.
Di più: la stessa rivendicazione marxiana contro Hegel, che ciò che
ci è dato subitaneamente non è l'Assoluto, ma la materialità
concreta, è fatta anche da Tommaso, il quale ovviamente, a
differenza del filosofo tedesco, non ne ricava che perciò sia
necessario capovolgere tutta quanta la concezione del diritto, né
che per questo l'Assoluto vada negato tout court. Certamente anche
per San Tommaso, come per Marx, è
dalla prassi che bisogna partire,
ma più nel senso di Nietzsche:
"Se
devi scrivere qualcosa scrivilo con il sangue, ti accorgerai che il
sangue è Spirito".
Così, per l'aquinate, dimostrata l'esistenza dell'Assoluto tramite
le “cinque
vie”
la prassi sarà quella, partendo da una concezione dell'uomo
strettamente ricavata dalla realtà, come già per Aristotele,
muovere sulla via dell' "aureum medium" tra gl'eccessi
creandoci un "habitus",
dei modi, delle abitudini, virtuose. E' questo il contesto a partire
dal quale può iniziare un cammino di fede e di Spiritualità. Come
si vede dunque il nuovo inizio teologico sancito da San Tommaso è
esattamente quello che contiene in sé quelli, che altrimenti posti,
saranno proprio i temi specifici dell'ateismo moderno. Se ne renderà
conto, con grande lucidità uno dei più grandi Papi della modernità,
Papa
Leone XIII (sì,
proprio lui, quello della "Rerum Novarum"), il quale
ordinerà la ripresa vigorosa dello studio dell'aquinate, che era
ormai divenuto desueto, non si capisce bene perché, negli stessi
ambienti cattolici, simbolo di un dogmatismo appartenuto sì ai
tomisti, ma non a Tommaso, una delle menti più brillanti e aperte
che all'umanità sia stato dato di avere.
Il
movimento della creatura razionale verso Dio (I-II e II-II)
Il
fine ultimo della creatura razionale è la beatitudine consistente
nella visione beatifica di Dio:
“RISPONDO:
La felicità ultima e perfetta non può consistere che nella visione
dell'essenza divina. Per averne la dimostrazione si impongono due
considerazioni. La prima, che l'uomo non è perfettamente felice fino
a che gli rimane qualche cosa da desiderare e da cercare. La seconda,
che la perfezione di ciascuna potenza è determinata dalla natura del
proprio oggetto. Ora, l'intelletto, come insegna Aristotele, ha per
oggetto la quiddità, o essenza delle cose. Perciò la perfezione di
un intelletto si misura dal suo modo di conoscere l'essenza di una
cosa. Cosicché se un intelletto viene a conoscere l'essenza di un
effetto, da cui non è in grado di conoscere l'essenza o quiddità
della causa, non si dirà che l'intelletto può raggiungere
senz'altro la causa, sebbene possa conoscerne l'esistenza mediante
gli effetti. Perciò rimane nell'uomo il desiderio naturale di
conoscere la quiddità della causa, quando nel conoscere gli effetti
arriva a comprendere che essi hanno una causa. Si tratta di un
desiderio dovuto a meraviglia, come dice Aristotele, che stimola la
ricerca. Chi, p. es., osserva le eclissi del sole, capisce la loro
dipendenza da una causa, la cui natura però gli sfugge, allora si
meraviglia, e mosso dalla meraviglia si pone alla ricerca. Ma questa
non cessa finché non arrivi a conoscere la natura della causa.
Ora,
dal momento che l'intelletto umano, conoscendo la natura di un
effetto creato, arriva a conoscere solo l'esistenza di Dio; la
perfezione conseguita non è tale da raggiungere davvero la causa
prima, ma gli rimane ancora il desiderio naturale di indagarne la
natura. Quindi non è perfettamente felice. Ma alla perfetta felicità
si richiede che l'intelletto raggiunga l'essenza stessa della causa
prima. E allora avrà la sua perfezione nel possesso oggettivo di
Dio, nel quale soltanto si trova la felicità dell'uomo, come abbiamo
detto.”
(I-II Q.3 a 8)
L'uomo
è in grado di conseguire la Beatitudine (I-II Q.5 a.1) tuttavia per
conseguirla necessita di un moto operativo dipendente dalla “retta
volontà”:
“RISPONDO:
Per la beatitudine si richiede, come già si è detto, la rettitudine
della volontà, consistente nel debito ordine del volere rispetto
all'ultimo fine; e si richiede per il conseguimento dell'ultimo fine,
come la buona disposizione della materia per la recezione della
forma. Ma questo non basta a dimostrare che la beatitudine dell'uomo
deve essere preceduta da una sua operazione: infatti Dio potrebbe
produrre una volontà che tende al fine e che simultaneamente lo
raggiunge; come agisce talora quando simultaneamente dispone la
materia e dà la forma. Ma l'ordine della divina sapienza esige che
così non avvenga; perché, come osserva Aristotele, "tra gli
esseri che sono capaci di possedere il bene perfetto, alcuni lo
possiedono senza moto, altri con un moto solo, e altri con molti".
Ora, possedere il bene perfetto senza moto appartiene a colui che lo
possiede per natura. E possedere per natura la beatitudine è
soltanto di Dio. Perciò è proprio soltanto di Dio non muoversi
verso la beatitudine, con un'operazione che la preceda. Ma nessuna
pura creatura raggiunge la beatitudine in maniera conveniente, senza
un moto operativo col quale tenda a raggiungerla. L'angelo però, che
in ordine di natura è superiore all'uomo, l'ha raggiunta, secondo
l'ordine della sapienza divina, con un solo moto del suo agire
meritorio, come fu spiegato nella Prima Parte. Invece gli uomini la
raggiungono con i moti molteplici delle loro operazioni, cioè con i
meriti. Cosicché la beatitudine, come si esprime il Filosofo, è
anche un premio delle azioni virtuose.”
(Q.5 a.7)
La
Beatitudine è conseguibile dall'uomo mediate opportuni atti cui la
connotazione fondamentale è la volontarietà:
“Posta
la conclusione che sono necessari, per giungere alla beatitudine,
alcuni atti determinati, dovremo ora logicamente prendere in esame
gli atti umani, per distinguere quelli che servono a raggiungere la
beatitudine, da quelli che ostacolano il cammino verso di essa. E
siccome gli atti e le operazioni riguardano il singolare concreto,
qualsiasi scienza operativa [o pratica] deve completarsi
nell'indagine del particolare. Perciò la morale, che ha per oggetto
gli atti umani, va esposta prima di tutto in generale (I-II) e quindi
in particolare (II-II).Per quanto riguarda l'indagine degli atti
umani in genere, si presentano alla nostra considerazione, prima gli
atti umani in se stessi; e in secondo luogo i loro principii. Tra gli
atti umani poi alcuni sono propri dell'uomo; altri sono comuni
all'uomo e agli animali irragionevoli. Essendo però la beatitudine
bene esclusiva dell'uomo, sono più vicini alla beatitudine gli atti
propriamente umani, che gli atti comuni all'uomo e agli altri
animali. Quindi si deve prima trattare delle azioni proprie
dell'uomo; e in secondo luogo di quelle comuni all'uomo e agli altri
animali, cioè delle passioni. Sul primo tema si presentano due
argomenti: primo, la posizione degli atti umani; secondo, la loro
distinzione [o moralità]. E poiché si dicono umani in senso proprio
gli atti volontari, essendo la volontà l'appetito razionale proprio
dell'uomo, è necessario considerare questi atti in quanto sono
volontari. Perciò bisogna trattare: primo, di ciò che è volontario
o involontario in generale; secondo, degli atti che sono volontari
perché emessi dalla volontà - esistenti nella volontà; terzo,
degli atti che sono volontari, perché imperati della volontà, e che
appartengono alla volontà mediante le altre potenze. E poiché gli
atti volontari hanno delle circostanze che li distinguono, bisogna
considerare prima di tutto la loro volontarietà e involontarietà; e
quindi le circostanze di questi medesimi atti.”
(I-II Q.6 Proemio).
“Passiamo
ora a studiare distintamente gli atti volontari. E prima di tutto gli
atti che appartengono immediatamente alla volontà, perché eliciti
da essa; e in secondo luogo gli atti comandati dalla volontà. Ma la
volontà si muove, sia verso il fine, sia verso i mezzi ordinati al
fine. Prima, dunque, bisogna considerare gli atti mediante i quali la
volontà si muove verso il fine; e in seguito quelli mediante i quali
si muove verso i mezzi ad esso ordinati. Ora, tre sembrano essere gli
atti della volontà riguardanti il fine: e cioè volere, fruire e
intendere [o perseguire]. Studieremo perciò: primo, la volizione:
secondo, la fruizione; terzo, l'intenzione.”
(I-II Q.8 Proemio)
“...Perciò
la specie dell'atto umano viene determinata formai niente in base al
fine, e materialmente in base all'oggetto esterno. Difatti il
Filosofo scrive che "colui il quale ruba per commettere un
adulterio, propriamente parlando, è più adultero che ladro".
(I-II Q.18 a6)
Per
l'aquinate sono il Bene ed il Male a distinguere specificamente le
azioni morali ed è il fine a connotarle:
“RISPONDO:
Le cose stanno alla bontà come stanno all'essere. Infatti ci sono
delle cose il cui essere non dipende da altri: e in esse basta
considerare direttamente il loro essere. Ce ne sono invece di quelle
il cui essere dipende da altri: e allora bisogna metterlo in rapporto
con la causa da cui dipende. E come l'essere di una cosa dipende
dalla causa agente e dalla forma, così la sua bontà dipende dal
fine. Tanto è vero che la bontà delle Persone divine, la quale non
dipende da altri, non ha alcun rapporto col fine. Ma le azioni umane
e tutte le altre cose, la cui bontà dipende da altri, desumono la
loro bontà, oltre quella intrinseca esistente in essi, dal fine a
cui tendono. Quindi si possono considerare quattro tipi di bontà
nell'azione umana. La prima è una bontà generica, cioè dell'azione
come tale: poiché l'agire, come abbiamo detto, quanto ha. di atto e
di entità, tanto ha di bontà. La seconda specifica: che dipende
dall'oggetto proporzionato. La terza deriva dalle circostanze, come
se fossero degli accidenti. La quarta poi è in dipendenza dal fine,
cioè quasi in rapporto alla causa della bontà.”
(I-II Q.18)
I
principi delle azioni umane sono invece insiti nelle potenze
dell'anima e negli abiti. Segnatamente le potenze sono cinque:
la vegetativa, la sensitiva, l’appetitiva, la facoltà di
locomozione e quella intellettiva.
Esse sono già descritte da San Tommaso nella prima parte della
Somma:
“RISPONDO:
Cinque sono nell’anima i generi delle potenze, e sono quelli che
abbiamo enumerato. Si parla invece di tre anime e di quattro forme di
vita. La ragione di questa diversità sta nel fatto che le anime si
distinguono secondo il diverso modo col quale le operazioni vitali
sorpassano le operazioni delle cose corporee: i corpi infatti sono
inferiori all’anima e servono ad essa, come materia o come
strumento. Vi è pertanto un’operazione dell’anima, che trascende
talmente la realtà corporea, da non aver nemmeno bisogno di un
organo materiale per esplicarsi. E questa è l’operazione
dell’anima razionale. - Vi è un’altra operazione dell’anima,
inferiore alla precedente, che si esplica mediante un organo
materiale, non però mediante una qualità corporea. Tale è
l’operazione dell’anima sensitiva. Infatti, sebbene il caldo e il
freddo, l’umido e il secco e altre simili qualità dei corpi, si
richiedano affinché il senso possa operare; tuttavia non si
richiedono affinché l’operazione dell’anima sensitiva abbia a
svolgersi per mezzo della virtù di tali qualità; ma esse sono
necessario soltanto per la debita disposizione dell’organo. - La
più bassa poi tra le operazioni dell’anima è quella che si svolge
mediante un organo corporeo e in virtù di certe qualità fisiche.
Anch’essa però sorpassa l’operazione della realtà materiale,
perché i movimenti dei corpi sono originati da un principio
estrinseco, mentre le operazioni in parola provengono da un principio
intrinseco: aspetto comune questo a tutte le operazioni dell’anima;
perché ogni essere animato in qualche modo muove se stesso. Così si
presenta l’operazione dell’anima vegetativa: infatti la
digestione e le operazioni che ne derivano si svolgono,
strumentalmente, mediante l’azione del calore, come dice
Aristotele. Invece i generi delle potenze dell’anima si distinguono
secondo gli oggetti. Quanto più una potenza è elevata tanto più
universale ne è l’oggetto, come abbiamo visto sopra. Ora l’oggetto
dell’attività dell’anima possiamo considerarlo in un triplice
ordine. Vi è una potenza dell’anima, il cui oggetto non è che il
corpo stesso unito all’anima. E le potenze di questo genere si
chiamano facoltà vegetative: infatti le potenze vegetative non
agiscono che nel corpo, cui è unita l’anima. - Vi è un altro
genere di facoltà, che abbraccia un oggetto più universale, cioè
ogni corpo sensibile, e non solo il corpo unito all’anima. - Vi è
pure un terzo genere di potenze dell’anima, che abbraccia un
oggetto ancora più universale, cioè non il solo corpo sensibile, ma
l’ente universalmente preso. È perciò evidente che questi due
ultimi generi di potenze hanno un’operazione che non riguarda
soltanto ciò che è unito all’anima, ma anche il mondo esterno. -
Ora, essendo necessario che chi opera venga a unirsi in qualche modo
all’oggetto della sua operazione, bisogna che la cosa estrinseca,
oggetto dell’operazione dell’anima, abbia rapporto con l’anima
sotto due aspetti. Primo, in quanto ha l’attitudine a unirsi
all’animale a trovarsi in essa mediante una sua immagine. Abbiamo
così due generi di potenze: quelle sensitive che si portano verso un
oggetto meno universale, quale è il corpo sensibile, e quelle
intellettive, che abbracciano un oggetto vastissimo, quale è l’ente
nella sua universalità. Secondo, in quanto l’anima stessa è
inclinata e tende verso la realtà esterna. Anche sotto questo
rispetto abbiamo due generi di potenze nell’anima: nel primo si
trovano le facoltà appetitive, che servono all’anima per volgersi
verso l’oggetto esteriore come a un fine, e al fine spetta una
priorità in ordine d’intenzione; nel secondo le facoltà di
locomozione, che servono all’anima per portarsi verso la cosa
esteriore, come verso il termine della sua operazione e del suo moto;
infatti ogni animale si muove, per raggiungere un oggetto desiderato
e perseguito.Le forme di vita invece si distinguono secondo i vari
gradi dei viventi. Vi sono infatti dei viventi, le piante, che hanno
la sola vegetalità. Altri, p. es., le ostriche, hanno la sensibilità
unita alla vegetalità, sebbene manchino di moto locale. - Altri poi
hanno anche questa facoltà di muoversi nello spazio; p. es., gli
animali perfetti che, abbisognando di molti mezzi per vivere, hanno
bisogno del moto per provvedersi le cose distanti necessarie alla
vita. - E vi sono infine dei viventi, cioè gli uomini, nei quali a
tutti questi gradi si aggiunge l’intelligenza. - Invece l’esser
dotato di appetizione non costituisce un grado speciale nei viventi;
perché si ha l’appetito dovunque esiste la sensibilità, come dice
Aristotele.”
(I, Q.78, a1).
Per
quanto concerne gl' “Abiti”
invece essi sono delle qualità, ovvero “disposizioni
secondo le quali uno è disposto bene o male, o in se stesso o in
rapporto ad altro. Gl'abiti si trovano nell'uomo sia come infusi
dall'azione divina che come predisposizione naturale, che come
acquisiti dal suo agire:
“Perciò
le virtù dell'uomo, ordinate al bene che cade sotto la regola della
ragione, possono essere prodotte dagli atti umani: poiché codesti
atti derivano dalla ragione, sotto il cui potere e regola è compreso
tale bene. - Invece le virtù che ordinano l'uomo al bene in quanto
ricade sotto la legge divina, e non sotto la ragione umana, non
possono essere causate dagli atti umani, il cui principio è la
ragione: ma sono causate in noi dall'azione di Dio. Perciò nel
definire codeste virtù, S. Agostino così completa la definizione:
"che Dio opera in noi senza di noi".
(I-II Q.63 a2).
Per
Tommaso tutta la morale si riduce alle virtù che egli riduce a
sette:
“...Ebbene,
dopo aver ridotto tutta la morale alla considerazione delle virtù,
tutte le virtù vanno ancora ridotte al numero di sette: tre
teologali, di cui parleremo subito; e quattro cardinali, di cui
tratteremo in seguito. Delle (cinque) virtù intellettuali una è la
prudenza, che ritroviamo nel numero delle virtù cardinali; l'arte
poi esula dalla morale, che si occupa delle azioni da compiere,
essendo l'arte, come sopra si disse, la retta norma delle cose
fattibili; e le altre tre virtù intellettuali, sapienza, intelletto
e scienza, convengono anche nel nome con alcuni doni dello Spirito
Santo; e quindi parleremo di esse nel trattare dei doni corrispettivi
delle varie virtù. Tutte le altre virtù morali, poi, si riducono in
qualche modo alle virtù cardinali, come sopra abbiamo dimostrato:
quindi nel trattare di una virtù cardinale, esamineremo anche tutte
le altre virtù che ad essa in qualsiasi maniera appartengono, e i
rispettivi vizi. E in tal modo non sarà trascurato nessun elemento
della morale.”
(II-II Proemio)
In
relazione al perseguimento del Bene distinguiamo le virtù ed i vizi.
Le virtù sono di tre generi: intellettuali, morali e teologali.
Quelle intellettuali sono 5: Prudenza, Arte, Scienza, Sapienza e
Intelletto. Le virtù morali sono quattro: Prudenza, Giustizia,
Temperanza e Fortezza. Le teologali sono tre: Fede, Speranza e
Carità.
Delle
virtù teologali l'aquinate, in quanto superiori alle altre (II-II
Q.23 a6 si veda più avanti), le considera per prima e tratta
anzitutto la Fede ed il suo oggetto:
“RISPONDO:
Nell'oggetto di qualsiasi abito conoscitivo si devono distinguere due
cose: la cosa che materialmente viene conosciuta, la quale
costituisce come l'oggetto materiale; e la cosa per cui si conosce, e
che costituisce la ragione formale dell'oggetto. Nella geometria, p.
es., l'oggetto materiale è costituito dalle conclusioni conosciute;
mentre la ragione formale della scienza stessa consiste nei principi
dimostrativi, che permettono di conoscere le conclusioni. Lo stesso
si dica della fede: se consideriamo la ragione formale dell'oggetto,
essa non ha altro oggetto che la prima verità, poiché la fede di
cui parliamo non accetta verità alcuna, se non in quanto è rivelata
da Dio; perciò si appoggia alla verità divina come a suo principio.
Se invece consideriamo materialmente le cose accettate dalla fede,
oggetto di questa non è soltanto Dio, ma molte altre cose. Queste
però non vengono accettate dalla fede, se non in ordine a Dio: cioè
solo in quanto l'uomo viene aiutato nel cammino verso la fruizione di
Dio dalle opere di lui. Perciò anche da questo lato in qualche modo
oggetto della fede è sempre la prima verità, poiché niente rientra
nella fede, se non in ordine a Dio: cioè come la salute è oggetto
della medicina, poiché niente è considerato dalla medicina, se non
in ordine alla salute.”
(II-II Q.1, a1).
Nella
Fede il nostro considera il credere che ne è l'atto interno ed il
confessarla che ne è l'atto esterno. I doni della Fede sono invece
l' Intelletto e la Scienza.
Per
quanto concerne invece la Speranza egli osserva :
“RISPONDO:
Abbiamo detto nell'articolo precedente che la speranza di cui
parliamo raggiunge Dio stesso, fondandosi sul suo aiuto, per
conseguire il bene sperato. Ora, l'effetto è necessario che sia
proporzionato alla causa. Perciò il bene che propriamente e
principalmente dobbiamo sperare da Dio è un bene infinito,
proporzionato alla virtù divina che viene in nostro aiuto: infatti è
proprio di una virtù infinita condurre ad un bene infinito. Ma
questo bene è la vita eterna, che consiste nella fruizione di Dio
medesimo: poiché da lui non si deve sperare qualche cosa che sia al
di sotto di Dio medesimo, dal momento che la sua bontà, mediante la
quale comunica il bene alle creature, non è che la sua stessa
essenza. Perciò l'oggetto proprio e principale della speranza è la
beatitudine eterna.”
(II-II Q.17 a2).
E'
qui opportuno segnalare l'esplicita condanna di San Tommaso d'Aquino
del modernismo e del suo atteggiamento di fondo la “speranza
nell'uomo” egli infatti si pone esplicitamente la domanda se ciò
sia lecito e risponde:
“RISPONDO:
Come abbiamo già visto, la speranza ha di mira due cose: il bene cui
si aspira, e l'aiuto col quale esso si raggiunge. Ora, il bene che
uno spera di raggiungere ha funzione di causa finale; invece l'aiuto
col quale spera di raggiungerlo ha natura di causa efficiente. Ma in
tutti e due i generi di causalità c'è l'elemento principale e
quello secondario. Infatti fine principale è il fine ultimo; mentre
è fine secondario il bene che serve come mezzo per il raggiungimento
del fine. Parimente causa efficiente principale è il primo agente; e
causa efficiente secondaria è la causa agente secondaria e
strumentale. Ora, la speranza ha di mira la beatitudine eterna come
ultimo fine, e l'aiuto di Dio come causa prima che porta alla
beatitudine. Perciò, come non è lecito sperare un bene diverso
dalla beatitudine quale ultimo fine, ma solo quale mezzo ad essa
subordinato; così non è lecito sperare in un uomo, o in altra
creatura, come se si trattasse di una causa prima, capace di condurre
alla beatitudine. Mentre è lecito sperare da un uomo, o da altre
creature, se si considerano quali agenti secondari e strumentali,
capaci di servire al conseguimento di certi beni ordinati alla
beatitudine. - È così che noi ci rivolgiamo ai santi, e chiediamo
anche agli uomini determinate cose; ed è per questo che vengono
rimproverati coloro dai quali non si può sperare un aiuto.”
(II-II Q.17 a4).
Il
Dono della Speranza è il timor di Dio.
Infine
la Carità è la più nobile delle virtù teologali:
“RISPONDO:
È necessario che le virtù umane, principio degli atti buoni,
consistano nell'adeguazione alla regola degli atti umani, poiché la
bontà di codesti atti si misura dalla loro conformità alla regola
stabilita. Sopra però abbiamo detto che esistono due regole degli
atti umani, cioè la ragione umana e Dio. Ma Dio è la prima regola,
da cui deve essere regolata la stessa ragione umana. Ecco perché le
virtù teologali, che consistono nell'adeguarsi a questa prima
regola, avendo esse Dio per oggetto, sono superiori alle virtù
morali e intellettuali, che consistono nell'adeguarsi alla ragione
umana. Perciò è necessario che tra le stesse virtù teologali sia
più nobile quella che meglio raggiunge Dio. D'altra parte (è noto
che) i mezzi diretti sono superiori a quelli indiretti. Ora, la fede
e la speranza raggiungono Dio in quanto causa in noi la conoscenza
della verità e il conseguimento della beatitudine: invece la carità
raggiunge Dio come è in se stesso, non in quanto causa di qualche
beneficio per noi. Perciò la carità è più nobile della fede e
della speranza; e quindi di tutte le altre virtù. Al pari cioè
della prudenza, la quale, adeguandosi direttamente alla ragione, è
superiore alle altre virtù morali, che si adeguano alla ragione in
quanto da essa viene stabilito il giusto mezzo negli atti e nelle
passioni umane.”
(II-II Q.23 a6).
Oggetto
della Carità sono le persone da amare con amore di carità, mentre
il suo principale atto è la Dilezione e gl'altri suoi atti si
dividono in interni (Gioia, Pace e Misericordia) ed esterni
(Beneficenza, Elemosina, Correzione Fraterna). Il dono della Carità
è la Sapienza:
“RISPONDO:
Come dice il Filosofo, al sapiente appartiene considerare la causa
più alta, dalla quale si giudica con la massima certezza delle altre
cose, e in rapporto alla quale si devono ordinare tutte le cose. Ma
una causa può essere la più alta in due maniere: in senso assoluto,
o in un dato genere. Perciò chi conosce la causa più alta in un
dato genere, ed ha la capacità di giudicare partendo da essa tutto
ciò che appartiene a codesto genere, si dice sapiente in tal genere
di cose, p. es., nella medicina o nell'architettura, secondo
l'espressione paolina: "da sapiente architetto ho posto il
fondamento". Chi invece conosce la causa più alta in senso
assoluto, cioè Dio, è sapiente in senso assoluto, avendo la
capacità di giudicare o di ordinare tutte le cose mediante le leggi
divine. Ma l'uomo raggiunge codesto giudizio per opera dello Spirito
Santo, secondo l'affermazione di S. Paolo: "L'uomo spirituale
giudica di tutto"; poiché "lo Spirito penetra tutte le
cose, anche le profondità di Dio".(II-II
Q.45 a1)
Segue
quindi la trattazione delle quattro virtù morali: Prudenza,
Giustizia, Temperanza e Fortezza.
La
Prudenza è una virtù propria della Ragione:
“RISPONDO:
Come dice S. Isidoro, "prudente suona quasi porro videns
(lungimirante): egli infatti è perspicace, e prevede gli eventi
nelle cose incerte". Ora, il vedere non è un atto delle facoltà
appetitive, ma conoscitive. È perciò evidente che la prudenza
appartiene direttamente a una facoltà conoscitiva. Non però a una
potenza sensitiva: perché con tali potenze si conoscono soltanto le
cose vicine e che si presentano ai sensi. Invece conoscere le cose
future dal presente o dal passato, come fa la prudenza, è proprio
della ragione: perché questo richiede dei confronti. Perciò rimane
stabilito che la prudenza propriamente è nella ragione.” (II-II
Q.47 a1).
Suo
dono è il Consiglio:
“RISPONDO:
Come sopra abbiamo detto, i doni dello Spirito Santo sono delle
disposizioni che rendono l'anima pronta alla mozione dello Spirito.
Ora, Dio muove ogni essere secondo la natura di esso: "muove le
creature corporee nel tempo e nello spazio, e muove le creature
spirituali nel tempo e non nello spazio", come si esprime S.
Agostino. Ora, è proprio della creatura ragionevole muoversi ad
agire mediante una ricerca della ragione: e tale ricerca è
denominata consiglio, o deliberazione. Perciò lo Spirito Santo muove
la creatura ragionevole sotto forma di consiglio. Ecco perché il
consiglio va posto tra i doni dello Spirito Santo.”
(II-II Q.52 a1).
Segue
la trattazione della Giustizia, più ampia. In essa San Tommaso
distingue come concetti fondamentali riguardo a essa: il Diritto; la
Giustizia in sé stessa; l' Ingiustizia ed il Giudizio.
Il
Diritto costituisce l'oggetto della Giustizia (II-II Q.57 a1). La
Giustizia ha come propria materia i doveri verso gl'altri e consiste
nel dare a ciascuno il suo. Più precisamente, qui Tommaso riprende
la definizione di Aristotele, "La
giustizia è l'abito mediante il quale si dà a ciascuno il suo con
volere costante e perenne".
La Giustizia non fa capo alla Ragione bensì alla Volontà:
“RISPONDO:
Una virtù risiede in quella potenza, i cui atti essa ha il compito
di rettificare. Ora, la giustizia non ha il compito di dirigere
nessun atto conoscitivo: infatti noi non siamo chiamati giusti per il
fatto che conosciamo rettamente qualche cosa. Perciò sede della
giustizia non è l'intelletto, o ragione, che è una potenza
conoscitiva. Ma è necessario che la giustizia risieda in una potenza
appetitiva; perché siamo denominati giusti per il fatto che compiamo
rettamente delle azioni; e il principio prossimo dell'agire è la
potenza appetitiva. Ora, esistono due tipi di appetito: c'è la
volontà, che appartiene alla ragione; e c'è l'appetito sensitivo
che segue alla percezione sensitiva dei sensi, e che si divide in
irascibile e concupiscibile, come abbiamo spiegato nella Prima Parte.
Ebbene, rendere a ciascuno il suo non può derivare dall'appetito
sensitivo: perché la conoscenza sensitiva non può estendersi a
considerare il rapporto di un soggetto con un altro, ma questo è
proprio della ragione. Perciò la giustizia non può risiedere
nell'irascibile, o nel concupiscibile, ma soltanto nella volontà.
Ecco perché il Filosofo definisce la giustizia mediante l'atto della
volontà, com'è evidente dai testi sopra riportati.”
(II-II Q.58 a4).
La
Giustizia è anche, seguendo ancora Aristotele, la più nobile delle
virtù morali (II-II Q.58 a12). Alla Giustizia si contrappone
l'Ingiustizia che è di due tipi: l'Illegalità e la diseguaglianza
con gl'altri. Per quanto infine concerne il Giudizio esso implica il
Giudice ovvero colui che dichiara il Diritto cioè l'oggetto della
Giustizia.
Sempre
nella Giustizia il nostro distingue: le parti soggettive (cioè le
specie di essa) che sono la Giustizia distributiva e quella
commutativa; le parti integranti cioè fare il Bene ed evitare il
Male; le parti potenziali che includono la religiosità, la pietà,
la riverenza, la riconoscenza, la veracità, la liberalità,
l'affabilità. Culmine della Giustizia è l'Epicheia o Equità:
“RISPONDO:
Come abbiamo detto sopra nel trattato sulla legge, non è possibile
fissare una norma che in qualche caso non sia inadeguata; perché gli
atti umani, che sono oggetto della legge, consistono in fatti
contingenti e singolari, che possono variare in infiniti modi: perciò
il legislatore nel fare la legge considera quello che capita nella
maggior parte dei casi. Ma osservare codeste leggi in certi casi
sarebbe contro la giustizia e contro il bene comune, che è lo scopo
della legge. La legge, p. es., stabilisce che la roba lasciata in
deposito venga restituita, perché questo nella maggior parte dei
casi è giusto; ma capita il caso in cui sarebbe nocivo: p. es.,
restituire la spada a un pazzo furioso mentre è fuori di sé, oppure
nel caso in cui uno la richieda per combattere contro la patria.
Perciò in simili casi sarebbe peccato seguire materialmente la
legge; è bene invece seguire quello che esige il senso della
giustizia e il bene comune, trascurando la lettera della legge. E
tale è il compito dell'epicheia, che noi latini chiamiamo equità.
Dunque l'epicheia è una virtù.”
(II-II Q.120 a1).
Il
Dono corrispondente alla Giustizia è la Pietà.
Segue
la trattazione della Fortezza ossia della virtù che ha il compito di
togliere gli ostacoli che impediscono alla Volontà di seguire la
Ragione. Fanno parte della Fortezza la Magnanimità, la Magnificenza,
la Pazienza e la Perseveranza. Il Dono della Fortezza è la Fortezza
stessa che dà le beatitudini della fame e sete della Giustizia.
In
ultimo Tommaso tratta della virtù della Temperanza:
“RISPONDO:
Come abbiamo già spiegato, il bene di una virtù morale consiste
principalmente nell'ordine della ragione: infatti "il bene
dell'uomo è di essere conforme alla ragione", secondo
l'espressione di Dionigi. Ora, l'ordine principale della ragione
consiste nell'ordinare le cose al loro fine, e in questo ordine
massimamente consiste il bene della ragione: infatti il bene ha
natura di fine, e il fine stesso è regola dei mezzi ordinati al
fine. Ma tutte le cose piacevoli, che l'uomo può usare, sono
ordinate come a loro fine a una necessità della vita presente.
Dunque la temperanza prende le necessità di questa vita come regola
nei piaceri di cui si serve: in modo da usarne quanto lo richiede la
necessità della vita presente.”
(II-II Q.141 a6). Sono parti integranti della Temperanza il Pudore e
l'Onestà, mentre le sue parti soggettive comprendono l'Astinenza e
la Sobrietà.
La
II-II è completata con la trattazione dei Carismi e della
distinzione tra vita attiva e contemplativa:
“Dopo
aver trattato singolarmente delle virtù e dei vizi che appartengono
alle condizioni e allo stato di tutti gli uomini, passiamo a
considerare ciò che riguarda particolari categorie di persone. Ora,
rispetto agli abiti e agli atti di ordine razionale si riscontrano
fra gli uomini tre differenze. La prima è una differenza di grazie
carismatiche; poiché a detta di S. Paolo, "c'è diversità di
carismi", e "dallo Spirito a uno è dato il linguaggio
della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza, eco.". -
La seconda differenza è impostata sulla distinzione tra vita attiva
e contemplativa, che dipende dalla diversità delle occupazioni e
degli impegni. S. Paolo dice che "c'è diversità di
operazioni". Altra infatti era l'occupazione di Marta, la quale
"si preoccupava e lavorava in varie faccende", il che
rientra nella vita attiva; e altra era l'occupazione di Maria, la
quale, "seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola".
- La terza è impostata sulla diversità di cariche e di stati,
secondo le parole di S. Paolo: "Ed egli dette ad alcuni di
essere apostoli, ad altri profeti, ad altri evangelisti, e ad altri
pastori e docenti". Si tratta cioè di quella "diversità
di ministeri" di cui egli paria scrivendo ai Corinzi. Fermiamoci
in primo luogo a trattare delle grazie carismatiche, le quali
riguardano, o la conoscenza, o la parola, o le opere. I carismi
riguardanti la conoscenza possono compendiarsi nel termine profezia.
Poiché la rivelazione profetica non si limita agli eventi umani
futuri, ma abbraccia le cose divine, sia per la verità che tutti
sono tenuti a credere, e che sono oggetto della fede, sia per dei
misteri più alti riservati ai perfetti, e che sono oggetto della
sapienza. Inoltre la rivelazione profetica si estende alle sostanze
spirituali, da cui siamo spinti al bene o al male, il che è oggetto
del discernimento degli spiriti; e non esclude gli atti umani, che
sono oggetto della scienza, come vedremo in seguito. Perciò prima di
tutto parleremo della profezia, quindi del rapimento, che è un grado
speciale del dono profetico. A proposito della profezia esamineremo
quattro cose: primo, la sua natura; secondo, le sue cause; terzo, il
modo della conoscenza profetica; quarto, le varie specie di
profezia.”
(II-II Q.171 Proemio).
TERZA
PARTE: trattato su Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi la
via per andare a Dio.
Questa
parte della Somma inizia con la trattazione della Incarnazione che
Giovanni Duns Scoto (il Dottor Sottile), contemporaneo di San Tommaso
e suo maggiore antagonista ha definito “il culmine della Creazione”
e su ciò aveva costruito quello che poi diverrà il dogma
dell'Immacolata concezione. San Tommaso invece pone al centro di essa
la finalità della Redenzione dell'uomo:
“Poiché
il Signore, Gesù Cristo, Salvatore nostro, «salvando», come
attesta l'angelo, «il suo popolo dai peccati», ci ha presentato in
se stesso la via della verità, per la quale possiamo giungere,
mediante la risurrezione, alla beatitudine della vita immortale, è
necessario, per condurre a termine tutto il corso teologico, che alla
considerazione dell'ultimo fine della vita umana, delle virtù e dei
vizi, segua lo studio dello stesso Salvatore universale e dei
benefici da lui apportati al genere umano.
In tale studio
tratteremo: primo, direttamente del Salvatore; secondo, dei suoi
sacramenti con i quali conseguiamo la salvezza; terzo, del fine della
vita immortale, cui arriviamo risorgendo per opera sua. Il primo
trattato si divide in due parti: nella prima affronteremo il mistero
dell'incarnazione, per cui Dio si è fatto uomo allo scopo di
salvarci; nella seconda parte vedremo che cosa ha operato e sofferto
il medesimo Salvatore nostro, cioè il Dio incarnato.”
(III parte Proemio)
“RISPONDO:
A ciascuna cosa si addice quello che è secondo la sua natura;
all'uomo, per es., ragionare, perché è per sua natura ragionevole.
Ma la natura di Dio è la bontà stessa, come spiega Dionigi. Perciò
si addice a Dio tutto quello che è proprio della bontà.Ora, la
bontà tende a comunicarsi, osserva Dionigi. Di conseguenza alla
somma bontà si addice di comunicarsi alla creatura in modo sommo.
Ciò avviene precisamente quando Dio "unisce a sé una natura
creata così intimamente che una sola persona risulti di tre
elementi: Verbo, anima, carne", come si esprime S. Agostino. È
chiaro dunque che l'incarnazione di Dio era conveniente.”
(III parte Q.1 a1).
Circa
l'incarnazione poi il nostro scende nei dettagli su quanto in essa fu
assunto dal Verbo di Dio, di quanto fu coassunto dal Verbo di Dio con
la natura umana (ovvero la Grazia, la Scienza e la Potenza di
Cristo).
Si
passa quindi alla trattazione della vita di ns Signore iniziando
dalla sua venuta al mondo e dalla trattazione della Beata Vergine
Maria. Qui le argomentazioni, riprese da Sant'Agostino, sono del
tutto parallele a quelle di Duns Scoto:
“RISPONDO:
Sulla santificazione della Beata Vergine nel seno materno nulla viene
detto dalla Scrittura canonica, che non parla neppure della sua
nascita. Ma, come fa S. Agostino argomentando con ragione che essa
deve essere stata assunta in cielo col corpo, sebbene taccia su
questo la Scrittura, così con ragione possiamo pensare che sia stata
santificata nel seno materno. Infatti è ragionevole credere che al
di sopra di tutti gli altri abbia ricevuto maggiori privilegi di
grazia colei che ha generato "l'Unigenito del Padre, pieno di
grazia e di verità", così da essere salutata dall'angelo:
"Ave, piena di grazia". Ora, risulta che ad alcuni altri è
stato concesso il privilegio della santificazione nel seno materno: a
Geremia, p. es., al quale fu detto: "Prima che tu uscissi dal
seno materno ti ho santificato"; e a S. Giovanni Battista di cui
sta scritto: "Sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua
madre". È dunque ragionevole credere che la Beata Vergine sia
stata santificata nel seno materno prima di nascere.”
(III, Q.27 a1).
Si
passa poi alla nascita, circoncisione e battesimo di ns Signore.
“RISPONDO:
Era conveniente che Cristo fosse battezzato. Primo, perché come dice
S. Ambrogio, "il Signore fu battezzato, non per essere
purificato, ma per purificare le acque, affinché queste, purificate
dal corpo di Cristo, il quale non conobbe peccato, acquistassero la
virtù richiesta dal battesimo"; "consacrate per quelli che
sarebbero stati battezzati in seguito", secondo l'espressione
del Crisostomo.
Secondo, perché, come nota il Crisostomo, "benché
Cristo non fosse un peccatore, tuttavia aveva preso una natura
peccatrice, e "una carne somigliante a quella del peccato".
Quindi, anche se personalmente non aveva bisogno del battesimo,
tuttavia la natura carnale ne aveva bisogno negli altri". E
quindi, per dirla con S. Gregorio Nazianzeno, "Cristo si fece
battezzare per immergere nell'acqua tutto il vecchio Adamo".
Terzo, Cristo volle essere battezzato, dice S. Agostino, "perché
volle fare ciò che aveva comandato a tutti gli altri". Tale è
il significato di quelle sue parole: "È conveniente che
adempiamo così ogni giustizia". Come infatti dice S. Ambrogio,
"La giustizia è questa, che tu faccia per primo ciò che
pretendi facciano gli altri, stimolandoli col tuo esempio".
(III Q.39 a1)
La
vita di ns Signore fu povera ed era opportuno che così fosse e
l'aquinate lo spiega espressamente:
“RISPONDO:
Fu opportuno che Cristo sulla terra vivesse poveramente. Primo,
perché ciò era consono all'ufficio della predicazione, per il
quale, secondo le sue parole, egli era venuto in questo mondo:
"Andiamo nei villaggi vicini, per predicare anche là: poiché
per questo io sono venuto". Ora, i predicatori della parola di
Dio, per dedicarsi interamente alla predicazione, è necessario che
siano assolutamente liberi da ogni occupazione d'ordine temporale. Il
che non è possibile per chi possiede le ricchezze. Per questo il
Signore, inviando gli Apostoli a predicare, diceva: "Non
prendete né oro né argento". E gli stessi Apostoli ebbero a
dire: "Non è bene che noi abbandoniamo la parola di Dio per
servire alle mense".
Secondo, perché, egli, come volle
subire la morte corporale per darci la vita spirituale, così accettò
la povertà materiale per donare a noi le ricchezze spirituali. Ecco
in proposito le parole di S. Paolo: "Voi conoscete bene la
grazia del Signor nostro Gesù Cristo, il quale si fece povero per
voi, pur essendo ricco, per arricchire voi con la sua povertà".
Terzo, perché il possesso delle ricchezze non facesse pensare che la
sua predicazione fosse ispirata dalla cupidigia. Ecco perché S.
Girolamo dice che se gli Apostoli avessero posseduto ricchezze,
"sarebbe potuto sembrare che essi predicavano, non per la
salvezza delle anime, ma a scopo di lucro". Lo stesso vale per
Cristo. Quarto, affinché tanto più grande apparisse la sua virtù
divina, quanto più spregevole egli appariva per la sua povertà. Per
questo negli atti del Concilio di Efeso si legge: "Ha scelto
tutto quel che c'era di povero, di vile, di mediocre e di oscuro,
affinché fosse reso evidente che a trasformare il mondo era stata la
divinità. Per questo egli scelse una madre povera, e una patria
ancora più povera: e non aveva denaro. Il presepio te lo dimostra".
(III Q.40 a3)
Interessante
è pure la trattazione delle tentazioni:
“RISPONDO:
La tentazione che viene dal nemico, come dice S. Gregorio, consiste
in un suggerimento. Ora, un suggerimento non viene dato a tutti alla
stessa maniera, ma a ciascuno secondo le sue tendenze o disposizioni.
Ecco perché il demonio non tenta l'uomo spirituale subito a peccati
gravi; ma comincia dai più leggeri, per arrivare gradatamente a
quelli più gravi. Cosicché S. Gregorio, spiegando quel passo di
Giobbe, "Da lontano fiuta la battaglia, le esortazioni dei capi
e gli urli dell'esercito", scrive: "Giustamente è detto
che i capi esortano, e l'esercito urla. Perché i primi vizi
penetrano nell'anima ingannata sotto forma di ragionamenti; ma quei
tanti che ne seguono, trascinando l'anima ad ogni follia, la
confondono con un clamore quasi bestiale".Tale metodo fu usato
già dal demonio nella tentazione del primo uomo. Prima infatti ne
richiamò la mente sull'obbligo di non mangiare il frutto proibito:
"Perché Dio vi ha proibito di mangiare di tutti i frutti del
paradiso?". Poi lo tentò di vana gloria: "I vostri occhi
si apriranno". E infine, portò la tentazione all'estremo limite
della superbia: "Diventerete come Dio, conoscendo il bene e il
male".Lo stesso ordine seguì nel tentare Cristo. Prima infatti
lo tentò su quelle cose che gli stessi uomini più spirituali sono
costretti a desiderare: cioè sul sostentamento del corpo mediante il
cibo. In secondo luogo passò a suggerire cose in cui talvolta anche
gli spirituali mancano, cioè a fare qualcosa per ostentazione: cioè
lo tentò di vana gloria. Terzo lo tentò su cose che appartengono
non agli uomini spirituali, bensì a quelli carnali: suggerì cioè
la brama delle ricchezze e della gloria mondana "fino al
disprezzo di Dio". Ecco perché nelle prime due tentazioni
disse: "Se sei il Figlio di Dio"; ma non lo disse nella
terza, perché questa, a differenza delle prime due, non si addice
agli uomini spirituali, che sono figli di Dio per adozione. Cristo ha
resistito a queste tentazioni, non con la forza del suo potere, ma
con testi della legge: "per onorare così maggiormente l'uomo"
come dice il Papa S. Leone "e punire maggiormente l'avversario,
in quanto il nemico del genere umano veniva vinto da Cristo non come
Dio, ma come uomo".
(III Q.41 a3)
Significativa
è pure la spiegazione dei Miracoli:
“RISPONDO:
Per due motivi Dio concede all'uomo di fare miracoli. Primo e
principalmente, per confermare la verità che uno insegna. Poiché
infatti le verità di fede superano le capacità della ragione umana,
non si possono provare con ragioni umane, ma vanno provate con
argomenti della potenza divina; cosicché per il fatto che uno compie
opere che solo Dio può fare, tutti credano l'origine divina di
quanto così viene affermato. Come quando uno presenta delle lettere
timbrate col sigillo reale, tutti credono che quanto in esse è
contenuto procede dalla volontà del re. - Secondo, per dimostrare la
presenza di Dio nell'uomo mediante la grazia dello Spirito Santo:
affinché cioè, facendo l'uomo le opere di Dio, si creda che Dio
abita in lui mediante la grazia. Ecco perché S. Paolo scriveva ai
Galati: "Chi vi concede lo Spirito ed opera prodigi in voi".
Ora, a proposito di Cristo dovevano essere manifestate agli uomini
ambedue le cose: cioè che Dio era in lui per la grazia, non di
adozione, ma di unione; e che la sua dottrina soprannaturale veniva
da Dio. Quindi era sommamente opportuno per lui fare miracoli. Di qui
le sue parole: "Se non volete credere a me, credete alle mie
opere". E ancora: "Le opere che il Padre mi ha dato di
compiere, mi rendono testimonianza"
(III Q.43 a1)
La
trattazione chiude quindi con la Passione, Morte e Risurrezione di
nostro Signore Gesù Cristo. Causa efficiente della passione e morte
furono i suoi persecutori “...poiché gli inflissero dei supplizi
capaci di produrre la morte, con l'intenzione di ucciderlo e
conseguendo l'effetto; poiché da tali supplizi ne seguì la morte.”
(III Q.47 a1)
Magistrale
è la spiegazione della discesa agli inferi:
“RISPONDO:
Uno può trovarsi in un luogo in due maniere. Primo mediante i suoi
effetti. In tal modo si può dire che Cristo discese in ogni parte
dell'inferno: però con effetti diversi. Infatti nell'inferno dei
dannati egli produsse l'effetto di confondere la loro incredulità e
la loro malizia. A coloro invece che si trovavano in purgatorio diede
la speranza di raggiungere la gloria. Ai santi Patriarchi poi, che
erano all'inferno solo per il peccato originale, infuse la luce della
gloria eterna.
Secondo, si può dire che uno è in un dato luogo
col proprio essere. E in tal modo l'anima di Cristo discese in quella
parte dell'inferno in cui erano detenuti i giusti: poiché volle
visitare localmente con la propria anima, coloro che visitava
interiormente mediante la grazia con la propria divinità. E così
portandosi in una sola parte dell'inferno irradiò in qualche modo la
sua azione in tutte le parti di esso; come soffrendo la sua passione
in un solo luogo della terra, liberò con essa tutto il mondo.
(Q.52 a2).
Estremamente
teologica è poi la trattazione della Risurrezione:
“RISPONDO:
Era necessario che Cristo risorgesse per cinque motivi. Primo, per
l'affermazione della giustizia divina, cui spetta esaltare coloro che
per Dio si umiliano, secondo le parole evangeliche: "Depose i
potenti dal trono ed esaltò gli umili". Perciò avendo Cristo
umiliato se stesso fino alla morte di croce per amore e per
ubbidienza verso Dio, era conveniente che fosse esaltato da lui fino
alla gloria della resurrezione. Ecco perché il Salmista, secondo le
spiegazioni della Glossa, così parla in sua persona: "Tu hai
conosciuto", cioè "approvato" "la mia
prostrazione", ossia "l'umiliazione e la passione", "e
la mia resurrezione", cioè "la glorificazione nella
resurrezione". Secondo, per confermare la nostra fede. Poiché
dalla sua resurrezione viene confermata la nostra fede nella divinità
di Cristo: infatti, come dice S. Paolo, "sebbene egli sia stato
crocifisso per l'affinità con la nostra debolezza, vive però per la
virtù di Dio". Di qui le altre parole dell'Apostolo: "Se
Cristo non è risuscitato vana è la nostra predicazione, vana è la
vostra fede". E quelle del Salmista: "Che utilità c'è nel
mio sangue", cioè "nell'effusione del mio sangue",
"mentre discendo", "come per una scala di mali",
"verso la corruzione?". "Come per dire: nessuna. Se
infatti", come spiega la Glossa, "io non risorgo subito, e
il mio corpo si corrompe, io non evangelizzerò e non riscatterò
nessuno". Terzo, a sostegno della nostra speranza. Perché
vedendo risuscitare Cristo, che è il nostro capo, anche noi speriamo
di risorgere. Di qui la protesta di S. Paolo ai Corinzi: "Se si
predica che Cristo è risuscitato dai morti, com'è che alcuni tra
voi osano affermare che non c'è resurrezione dei morti?". E
Giobbe affermava: "Io so", con certezza di fede, "che
il mio Redentore", cioè Cristo, "vive", essendo
risuscitato dai morti, e quindi "l'ultimo giorno mi rialzerò da
terra: e tale speranza è custodita nel mio seno". Quarto, per
indirizzare la vita dei fedeli, in base all'affermazione di S. Paolo:
"Come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre,
così noi camminiamo secondo una nuova vita". E ancora: "Cristo
risorto dai morti ormai non muore più: ... così voi consideratevi
morti al peccato e viventi per Dio". Quinto, per dare compimento
alla nostra salvezza. Poiché come soffrì i nostri mali per
liberarci da essi, così volle essere glorificato con la
resurrezione, per assicurarci il bene: "Si consegnò alla
morte", scrive S. Paolo, "per i nostri peccati, ed è
risuscitato per la nostra giustificazione".
(III Q.53 a1).
Seguono
infine Ascensione di Nostro Signore e suo insediamento alla destra
del Padre. La trattazione di tutta l'opera si chiude con quella del
potere giudiziario del Figlio:
“RISPONDO:
Se parliamo di Cristo secondo la natura divina, è evidente che ogni
giudizio del Padre appartiene anche al Figlio: poiché come il Padre
compie ogni cosa per mezzo del Verbo, così giudica di tutto mediante
il Verbo. Se invece parliamo di Cristo secondo la sua natura umana,
allora è evidente che al suo giudizio sono soggette tutte le cose
umane. Primo, a motivo del rapporto esistente tra l'anima di Cristo e
il Verbo di Dio. Se è vero infatti che "l'uomo spirituale
giudica di tutto", in quanto la sua mente aderisce al Verbo di
Dio; molto più ha il potere di giudicare ogni cosa l'anima di
Cristo, la quale gode la pienezza della verità del Verbo di Dio.
Secondo, ciò risulta dal considerare i meriti acquistati con la sua
morte. Poiché, come dice S. Paolo, "Cristo è morto ed è
risuscitato, per essere il Signore dei vivi e dei morti". Dunque
egli esercita il giudizio su tutti. Perciò l'Apostolo può
concludere, che "tutti compariremo dinanzi al tribunale di
Cristo" e in Daniele si legge, che "a lui egli diede
potere, gloria e regno: e tutti i popoli, nazioni e lingue lo
serviranno". Terzo, ciò risulta dal confronto delle cose umane
col fine dell'umana salvezza. Infatti chi ha il compito di disporre
ciò che è principale, ha anche quello di disporre di ciò che è
necessario. Ora, tutte le cose umane sono ordinate al fine della
beatitudine, che è la salvezza eterna, cui tutti gli uomini sono o
ammessi o respinti per il giudizio di Cristo, come risulta dal
Vangelo. Perciò è evidente che tutte le cose umane ricadono sotto
il potere giudiziario di Cristo.”
(III Q.59 a4).
Nel
Supplemento sono è trattata la Via per noi per andare a ns Signore
ed accedere alla Beatitudine: ovvero il conformarci a Cristo, al suo
insegnamento ed il seguimento della vita cristiana attraverso i
Sacramenti:
“RISPONDO:
I sacramenti sono necessari alla salvezza dell'uomo per tre ragioni.
La prima va desunta dalla condizione dell'uomo il quale dev'essere
condotto per mezzo di cose corporee e sensibili alle cose di ordine
spirituale e intelligibile. Ma la provvidenza divina suol provvedere
a ogni essere secondo la sua condizione. Perciò è conveniente che
la divina sapienza offra all'uomo gli aiuti della salvezza sotto
segni corporei e sensibili, che si chiamano sacramenti. La seconda
ragione è da desumersi dallo stato dell'uomo, che peccando si rese
schiavo nei suoi affetti delle cose materiali. Ora, la medicina
dev'essere applicata sulla parte malata. Dunque era conveniente che
Dio con segni corporei fornisse all'uomo il rimedio spirituale;
perché, se gli avesse proposto cose del tutto spirituali, non si
sarebbe potuto applicare ad esse l'animo suo dedito alle cose
materiali. La terza ragione poi si deve desumere dal predominio che
nell'attività umana hanno le funzioni d'ordine materiale. Perché
dunque non riuscisse duro all'uomo essere completamente astratto
dalle attività materiali, gli sono state proposte nei sacramenti
alcune pratiche di ordine materiale alle quali applicarsi
salutarmente, per evitare gli atti superstiziosi, volti al culto dei
demoni, o gli atti comunque dannosi che costituiscono peccato. In
conclusione, con l'istituzione dei sacramenti l'uomo dalle cose
sensibili viene formato spiritualmente in armonia con la sua natura:
viene cioè mantenuto nell'umiltà, vedendosi sottomesso a cose
materiali chiamate a soccorrerlo; e viene preservato dalle cattive
azioni di ordine materiale con i riti salutari dei sacramenti.”
(III Q.61 a1)
I
Sacramenti hanno come effetto principale la grazia:
“RISPONDO:
I sacramenti, come abbiamo già spiegato, concorrono a causare la
grazia quali strumenti. Ebbene, lo strumento può essere di due
specie: o separato, come il bastone; o congiunto, come la mano. Lo
strumento separato poi viene mosso per mezzo di quello congiunto,
come il bastone per mezzo della mano. Ora, la principale causa
efficiente della grazia è Dio stesso, rispetto al quale l'umanità
di Cristo fa da strumento congiunto e il sacramento da strumento
separato. Perciò la virtù salvifica deriva necessariamente dalla
divinità di Cristo attraverso la sua umanità fino ai sacramenti. Ma
la grazia dei sacramenti è ordinata principalmente a due fini: a
togliere le colpe dei peccati commessi, di cui passa l'atto ma rimane
il reato; e a perfezionare l'anima in ciò che riguarda il culto di
Dio secondo la religione cristiana. Ma da quanto abbiamo detto sopra
appare evidente che Cristo ci ha liberato dai nostri peccati
principalmente per mezzo della sua passione, non solo a modo di causa
efficiente e meritoria, ma anche come causa soddisfattoria. Inoltre
egli iniziò il culto della religione cristiana proprio con la sua
passione, "offrendo se stesso come oblazione e sacrificio a
Dio", secondo l'espressione di S. Paolo. È chiaro dunque che i
sacramenti della Chiesa ricevono la loro virtù specialmente dalla
passione di Cristo, che viene applicata a noi quando li riceviamo. In
segno di ciò dal fianco di Cristo pendente in croce sgorgarono acqua
e sangue, l'una elemento del battesimo e l'altro dell'Eucaristia, che
sono i sacramenti principali.”
(III Q.62 a5)
l'altro
effetto dei Sacramenti è il carattere:
“RISPONDO:
Come abbiamo già detto, i sacramenti della nuova legge imprimono il
carattere, perché deputano gli uomini al culto di Dio secondo la
religione cristiana. Cosicché Dionigi, dopo aver affermato che "Dio
comunica se stesso al neofita mediante il segno (sacramentale)",
aggiunge: "rendendolo divino e comunicatore delle cose divine".
Il culto divino infatti consiste, sia nel ricevere i beni divini, sia
nel comunicarli agli altri. Ora, per l'uno e per l'altro compito si
richiede una facoltà, un potere: infatti per comunicare qualche cosa
ad altri occorre una potenza attiva, per ricevere occorre una potenza
passiva. Dunque il carattere implica un potere spirituale in ordine
alle cose che sono proprie del culto divino. Bisogna però osservare
che questa potenza spirituale è strumentale, come abbiamo notato
sopra per la virtù che si trova nei sacramenti. Infatti avere il
carattere sacramentale spetta ai ministri di Dio, e il ministro ha
funzione di strumento, come aveva già notato Aristotele. Perciò
come la virtù che risiede nei sacramenti rientra in un genere non
per sé, ma per riduzione, essendo un'entità transeunte e
incompleta; così anche il carattere non rientra propriamente in un
genere, o in una specie, ma si riduce alla seconda specie della
qualità.”
(III Q.63 a1)
I
sacramenti sono poi trattati singolarmente: Battesimo, Cresima,
Eucarestia, Penitenza, Unzione degli infermi, Ordine e Matrimonio.
Qui ci limitiamo alla esposizione della Eucarestia con cui chiudiamo:
“RISPONDO:
Era conveniente che questo sacramento fosse istituito nella Cena,
cioè in quella circostanza in cui Cristo per l'ultima volta si
trattenne con i suoi discepoli. Primo, a motivo di ciò che esso
contiene. Racchiude infatti sacramentalmente Cristo medesimo.
Cosicché Cristo lasciò se stesso ai discepoli sotto la specie
sacramentale nel momento in cui stava per separarsi da loro nella sua
specie reale, come in assenza dell'imperatore si espone alla
venerazione la sua immagine. Di qui le parole di Eusebio (di Emesa):
"Stando per sottrarre agli sguardi degli altri il corpo che
aveva assunto per trasferirlo in cielo, era necessario che nel giorno
della Cena consacrasse per noi il sacramento del suo corpo e del suo
sangue, perché fosse per sempre onorato nel mistero quel corpo che
allora veniva offerto per il riscatto".
Secondo, perché
senza la passione di Cristo non ci poté mai essere salvezza, in
conformità alle parole di S. Paolo: "Dio ha prestabilito Cristo
quale mezzo di propiziazione per la fede nel suo sangue". Era
quindi necessario che in ogni tempo presso gli uomini qualche cosa
rappresentasse la passione del Signore. Di essa nel Vecchio
Testamento il simbolo principale era l'agnello pasquale; tanto che
l'Apostolo afferma: "Qual nostra Pasqua è stato immolato il
Cristo". Ora, nel Nuovo Testamento doveva subentrare ad esso il
sacramento dell'Eucarestia, che è commemorativo della passione
avvenuta, come l'agnello pasquale era prefigurativo della passione
futura. Era quindi conveniente che nell'imminenza della passione,
dopo aver celebrato l'antico, venisse istituito il nuovo sacramento,
come dice il Papa S. Leone. Terzo, perché le cose che sono dette per
ultime, specialmente dagli amici al momento della separazione
rimangono più impresse nella memoria: perché allora più si accende
l'affetto verso gli amici, e le cose che più ci commuovono,
s'imprimono maggiormente nell'animo. Poiché dunque, come osserva il
Papa S. Alessandro, "tra tutti i sacrifici nessuno può essere
superiore a quello del corpo e del sangue di Cristo, né alcuna
oblazione può essere migliore di questa", affinché fosse
tenuto in maggiore venerazione, il Signore istituì questo sacramento
sul punto di separarsi dai suoi discepoli. Di qui le parole di S.
Agostino : "Il Salvatore per far capire con più efficacia la
grandezza di questo mistero, lo volle per ultimo imprimere più
vivamente nei cuori e nella memoria dei suoi discepoli, dai quali si
separava per andare alla morte".
(III Q.73 a5).
francesco latteri scholten.
finito di scrivere Giugno 2020 Acquedolci