San Tommaso d’Aquino: considerazioni sul De ente e raffronto con il Monologion di S. Anselmo.

Sul De ente vanno fatte alcune considerazioni per le quali – a chi scrive – è risultata assai utile la lettura fatta precedentemente del Monologion, un breve raffronto con il quale ci aiuta a cogliere meglio le caratteristiche del pensiero di Tommaso, la sua novità ed il suo metodo. Anselmo, sebbene vissuto in ambiente monastico, è considerato il padre della scolastica, cosa che dà ulteriore significatività al confronto. Egli condivide con Tommaso la convinzione che l’essenza propria dell’uomo, creatura di Dio, sia la razionalità. L’uomo, sebbene non possa conoscerne l’essenza, né possa vederlo (la visione di Dio è solo dei beati), può tuttavia conoscere con la facoltà a lui propria l’esistenza di Dio. Con questa convinzione Anselmo procede sicuro che dialogando con sé stessa la ragione possa proporsi di percorrere la vasta regione della Verità per dire secondo necessità ciò che l’intelligenza umana può pensare ed esprimere sull’intelligenza divina, ossia l’indagine sola ratione ha per oggetto l’intero mondo concettuale dell’essere di Dio, visto anche nei suoi rapporti con il  mondo e con l’uomo. Egli parte considerando nelle cose create il bene, le grandezze, l’essere ed il valore. La presenza relativa – “per altro”- di questi nelle cose create, implica l’esistenza di un Summum Omnium, bene, grande, etc. “per sé”. Anselmo approfondisce poi la natura e le perfezioni del Summum Omnium chiarendone la natura trinitaria e la analogia di tale natura con la mente dell’uomo. C’è la trattazione diretta del rapporto universali/Dio-Trinità con il pensiero il cui carattere è l’ “in sé e per sé” ed universali/Dio-Trinità con il linguaggio, cui peculiarità è la relazionalità con l’altro, ed al tempo stesso, la relazionalità pensiero/linguaggio, infine il rapporto del tutto con l’etica. Tommaso condivide, nella sua quarta via, il quarto argomento di Anselmo a sostegno del Summum Omnium, sostiene infatti: ci sono dei gradi nella bontà, nella verità e nelle altre perfezioni. Ora il più o il meno suppongono sempre un termine di paragone che è l’assoluto. Esiste dunque un vero e buono per sé, cioè infin dei conti un essere per sé che è la causa di tutti gl’altri esseri (Etienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, p. 637-638). L’aquinate però, lo specificherà espressamente nei Commenti alla Trinità di Boezio, dove affronterà direttamente l’argomento, osserva: La Trinità di Dio è soltanto oggetto di fede e non può in alcun modo essere provata dimostrativamente (…) non possiamo conoscere Dio se non in base ai suoi effetti (…) con la ragione naturale possiamo conoscere di Dio solo ciò che può esserne percepito a partire dalla relazione che gli effetti possiedono verso di Lui … (Q I, a 4, r.) Va fatto incidentalmente qui rilevare che l’uni/trinitarietà di Dio ha un antecedente filosofico più remoto di Anselmo: il Parmenide di  Platone, dove essa è già abbozzata. Il distacco su questo punto non è allora solo da Anselmo ma anche da Platone. Abbiamo qui comunque in germe la delicata questione del rapporto fede/ragione,  o ragione/fede, ed è in esso che si colloca Dio, conoscibile con la fede nella rivelazione, con la ragione partendo dagli effetti, ossia dalle cose create. La ragione ci consente di conoscere di Dio solo l’esistenza. Ma per la ragione, secondo Tommaso, osserva Gilson, l’esistenza di Dio non è una cosa evidente (…) Dio è un essere infinito, e, dato che non ne ha il concetto, la nostra mente finita non può vedere la necessità di esistere che la sua stessa infinità implica; si deve quindi dedurre attraverso il ragionamento questa esistenza che non possiamo constatare (…) ci resta aperta la via che indica Aristotele. Cerchiamo nelle cose sensibili, la cui natura è conforme alla nostra, un punto di appoggio per elevarci a Dio (Etienne Gilson, op. cit. p.636). E’ questo l’orizzonte che già si intravede ed è contenuto in nuce nel De ente e che scaturirà in pienezza come evoluzione logica e naturale della sua stessa impostazione. E’ anch’esso un  orizzonte d’indagine sola ratione, ma in cui questa non ha più come oggetto Dio, oggetto indistintamente di metafisica e teologia ed in cui l’una e l’altra appaiono quasi fuse, ma Dio quale oggetto di una metafisica la quale può conoscere solo che questi esista. Di tutto il vasto orizzonte del Monologion e dei suoi molti piani non ne rimane che uno solo, quello condiviso nella quarta via, dagli effetti alla causa, dalle cose create a Dio. Tommaso affronta questo piano, che è un percorso, in modo diverso da Anselmo: non dal bene, grande, essere, valore, delle cose al Summum Omnium, ma – aristotelicamente – dalla entità delle cose al Summum Omnium, meglio, per dirla con Tommaso, all’ Ipsum Esse. Dunque si va dall’ente naturale, a noi immediatamente conoscibile come sostanza composta, alle sostanze semplici, a Dio. Gl’enti naturali sono le sostanze composte e per essi si pone il problema della definizione e del loro rapporto con il genere, la specie, la differenza specifica. Tommaso risolve la cosa nei termini in cui abbiamo visto (si veda il mio Tommaso d’Aquino: il De ente). Non affronta invece in questo luogo due tematiche radicalmente implicite al discorso e che saranno due grandi temi della filosofia e del pensiero dell’aquinate:
Il discorso dell’ente, della sua definizione, dei suoi rapporti con genere e specie, pone di per sé il problema della coincidenza dell’essenza dell’ente, sia con l’ente stesso che con il suo concetto, ossia la necessità dell’adaequatio rei et intellectus.
L’analogia, senza la quale di Dio non sarebbe predicabile assolutamente nulla – neppure con la metodologia negativa dello pseudo Dionigi – né sul piano metafisico, né su quello rivelativi.
Sono i due grandi presupposti non trattati, senza i quali di tutto l’opuscolo non resterebbe niente.
francesco latteri scholten.